Riguardo l’attuale situazione del paese si è parlato di ‘decostituzionalizzazione selvaggia’ che è alla base di un caotico ritorno centralistico senza precedenti che avrà pure le caratteristiche di quel ‘centralismo debole’ -di cui ha scritto recentemente Sabino Cassese- che si è avvalso di quella legislazione ‘a doppio fondo’ già denunciata a suo tempo da Piero Calamandrei, ma è in ogni caso innegabile che siamo mille miglia distanti dalla attuazione di quel nuovo titolo V della Costituzione specie per quanto attiene al governo del territorio e dell’ambiente. E’ in questo contesto –cogliendone gli effetti rovinosi specialmente sulle politiche ambientali che avevano avviato una nuova stagione istituzionale e culturale- che abbiamo considerato la crisi dei parchi come un momento, un capitolo al tempo stesso concausa ed effetto di questa più generale deriva politico-istituzionale. La nuova stagione era stata chiaramente segnata dalla presenza delle regioni e aveva visto –per la prima volta- anche comuni e province entrare in una partita e in un campo di gioco fino a quel momento a loro precluso. La legge sul mare 979 è dell’82, quella sul suolo (la 183) è dell’89, quella sui parchi (la 394) è del 91, quella sugli enti locali (la 142) è del 90. Nello stesso periodo è lungo l’elenco dei Protocolli, Convezioni, risoluzioni europee e internazionali sull’ambiente, la biodiversità, le foreste, la fauna, il mare, la pesca, i fiumi e le zone umide e molto altro ancora. Ad eccezione del paesaggio già presente in Costituzione si tratta nell’insieme di terreni nuovi per l’intero sistema istituzionale. I parchi e la legge nazionale sono anch’essi il prodotto di quella stagione che solo grazie a questo sommovimento generale riuscì a tagliare il traguardo dopo tanti rinvii e battute d’arresto. E questa legge, che non ha compiti genericamente ambientali ma specificamente riguardanti la conservazione e la valorizzazione del patrimonio naturale, a differenza di tutte le altre ricordate è chiaramente connotata da una esperienza regionale che in qualche modo gli fece – grazie a quella ‘supplenza costituzionale’ di cui parlò Scalfaro- da levatrice. Non troppo gradita peraltro tanto è vero che fino all’ultimo giro la legge neppure faceva menzione delle regioni e dei loro parchi che in più d’una circostanza erano finiti non a caso nell’elenco di quelli nazionali. Ognuna di quelle leggi -e quella sui parchi non meno delle altre- dovette conquistarsi palmo a palmo un ruolo che nel trasferimento delle norme nella concreta gestione politico-amministrativa non fu facile per nessuna. Dopo questa fase di decollo che avviò appunto una svolta nel governo del territorio non più circoscritto alla gestione urbanistica, iniziò –non molti anni fa- un vero e proprio anche se non sempre esplicito smantellamento o quanto meno una costante penalizzazione anche sotto il profilo normativo; vedi la sottrazione del paesaggio alla pianificazione dei parchi. E qui vorrei ricordare –perché mi pare una premessa indispensabile per sgombrare il campo da troppi e non casuali equivoci presenti nel dibattito odierno- che proprio il caso dei parchi è esemplare e consente di cogliere al meglio il senso e i danni di questa inversione di tendenza delle politiche nazionali. Assai prima del ventennale della 394 ricordo le discussioni anche in Federparchi sulla opportunità o meno di rimettere mano alla legge e di come allora prevalse il timore che fosse in ogni caso preferibile evitare il rischio di un suo stravolgimento. Fu un dibattito per molti versi sorprendente e paradossale perché mentre si paventavano i pericoli di una eventuale modifica, ai più sfuggiva che la legge 394 era già stata azzoppata e da tempo a partire dagli anni immediatamente successivi alla sua entrata in vigore. Azzoppata cancellando il Comitato stato-regioni, il piano triennale e poi via via la Consulta tecnica e altro. Nel 1993 fu approvato il primo piano triennale delle aree protette che nel 98 fu soppresso e le sue funzioni trasferite alla Conferenza Stato-Regioni. Stessa sorte è toccata al Comitato per la Carta della Natura, tutti organi e strumenti indispensabili per una gestione nazionale che non a caso il Decreto Bassanini ne prescriveva il riordino per renderli coerenti e conformi alla avviata riforma della pubblica amministrazione. Quell’articolo è rimasto lettera morta senza che nessuno peraltro ne abbia chiesto conto nè in parlamento né fuori. Né se ne trova traccia nelle relazioni annuali sullo stato dell’ambiente previste dalla legge ma anch’esse sparite ormai da anni. Un percorso come si può vedere contrassegnato da gravi inadempienze, da imbarazzati silenzi di cui ci è si è rifiutati ostinatamente di rendere conto non accogliendo, ad esempio, la proposta di convocare la terza Conferenza dei parchi che avrebbe evidentemente messo in piazza le troppe e pesanti responsabilità specialmente –ma non solo -per quanto riguarda le aree protette marine ormai alla canna del gas. Chiedere oggi la ‘manutenzione’ di una legge che ha subito questo tipo di ‘tagli’ e abrogazioni in punti cruciali come risulta chiaramente dalla legge 426 che aveva tentato di fissare i percorsi e i traguardi di una politica nazionale via via smarritasi per strada, non ha senso tanto più se si ignorano –come fa chiaramente il testo del Senato- proprio gli effetti perversi delle manomissioni operate negli anni. Ossia il venir meno di qualsiasi programmazione al punto che non si è riusciti neppure a classificare le nostre aree protette la cui anagrafe oggi risulta zeppa di clandestini; quasi una succursale di Lampedusa. E qui si torna ad un passaggio chiave della nostra sconfortante vicenda e cioè alla scarsa consapevolezza della gravità a cui è giunta oggi la situazione. I tagli finanziari che hanno caratterizzato tutta la fase della gestione Prestigiacomo sono stati presentati -anche con non poche complicità- come imposti dolorosamente da una difficile congiuntura che non riguardava soltanto i parchi e che quindi andavano anche se non condivisi accettati. Della ‘congiuntura’ –chiamiamola così- ci si è approfittati in pratica –questo è il nodo- per avviare lo snaturamento del ruolo dei parchi e delle aree protette in nome della assoluta necessità per i parchi di procurarsi le risorse anche per il futuro di cui lo stato non avrebbe più potuto ma anche dovuto –qualcuno con grande faccia tosta ha detto anche per ragioni etiche- farsi carico e che per farlo dovevano appunto diventare un’altra cosa. La responsabilità politica del governo non è stata solo quella di operare tagli pesantissimi- ma anche e soprattutto quella di rimettere in discussione il modello del parco configurato dalla legge 394, per battere strade stravolgenti quel disegno. Del resto ciò è quanto è avvenuto anche per altri soggetti istituzionali abrogati come i consigli di quartiere in certe realtà, le Comunità montane e ora le province; per tutti l’unica motivazione è che costano il che contribuisce a rendere il dibattito e il confronto sul riordino istituzionale quanto di più caotico e pasticciato si possa immaginare e anche assurdo. Non sono i ruoli insomma in discussione ma i costi; punto e basta Ciò che si appalesa falso alla luce dei fatti. E dove non si era proceduto alla abrogazione di norme essenziali per una regia ministeriale in grado di costruire un sistema nazionale di aree protette la legge fu messa in mora e interpretata a proprio uso e consumo come nel caso delle aree protette marine dove proprio la Liguria fece da cavia. Emerge chiaramente da questa rapida e sommaria ricostruzione che non è nella legge ma nella politica che hanno preso corpo e sono maturati specialmente negli ultimissimi anni i rischi di una crisi irreparabile per il futuro dei nostri parchi a cui erano dedicati anche i documenti approvati dal Congresso di Federparchi del 2009. Documenti che giustamente riguardavano le aree protette marine, la Convenzione alpina, il progetto APE, i parchi regionali anch’essi ormai privi di qualsiasi serio punto di riferimento nazionale a causa della ripresa di spinte accentratrici di stampo ministeriale. Così il ministero abdicando al suo ruolo nazionale e comunitario ha aperto le porte e incoraggiato un dibattito –quando lo è- in cui registriamo il ritorno di posizioni che appartengono ad un passato lontano che credevamo e speravamo morto e sepolto fino a tollerare l’abusivismo e condonismo più indecoroso. E qui è d’obbligo una notazione politica severa nei confronti di chi dinanzi a questa sconcertante involuzione ha preferito anziché chiederne conto, trasferire sulla legge una responsabilità che è politica e di governo. Si è trattato di un condono politico-istituzionale dal costo altissimo perché il testo del Senato ha innanzitutto tagliato fuori regioni ed enti locali da un confronto con esiti sconcertanti come si può agevolmente verificare sulla base del dibattito e dei testi in discussione. Non credo vi siano infatti precedenti del genere nelle pur ricche e variegate cronache parlamentari ossia di una legge con implicazioni tanto delicate presentata e portata avanti senza uno straccio di documentazione e studi attendibili come in questo caso. Ciò conferma che la presentazione di questa legge aveva ed ha finalità chiaramente e deliberatamente fuorvianti rispetto alle pesanti responsabilità politiche del governo. E siccome i guai non vengono mai da soli si vorrebbe anche approfittarne proprio per premiare una gestione – quella delle aree protette marine- da sempre separata e non integrata e che alla fine risulterebbe sempre più sottratta alla corresponsabilità delle regioni e degli enti locali.
mare grotta beneforti