“Il 31 ottobre scorso, un nubifragio tremendo, scatenatosi su questo Comune, travolse case, animali, vigneti ubertosi e fertili campi, ammucchiò rovine dove poco prima tutto era vita e speranza”. Questo è l’accorato incipit della lettera che l’avv. Gualando Gualandi, sindaco di Marciana Marina, inviò il 2 novembre 1899 ai Comuni del Regno affinché deliberassero “un sussidio qualsiasi”. Quattro giorni dopo gli fece eco Giovanni Battista Borachia, vescovo di Massa e Populonia il quale, in una nota non meno toccante rivolta “ al Clero e al Popolo”, ribadiva la richiesta di generosità e di soccorso dopo aver sottolineato che “la moltitudine delle acque si è rovesciata con tant’impeto sul Comune di Marciana Marina che ha reso vano ogni riparo, impossibile ogni umana previdenza … ha rovesciato argini, rotto strade … privato moltissime famiglie delle cose più necessarie”. Nel 1907 i due uviali di S. Giovanni e di Marciana, che già nella loro accezione semantica (latino alluvies = inondazione) indicano che la loro tendenza agli straripamenti è conosciuta da tempi remoti, replicarono la loro azione distruttiva. Ad ovest la tracimazione fu tanto potente che asportò perfino un’ala del cimitero. Chi non è più tanto giovane ricorda i racconti lugubri dei vecchi pescatori che, nel mare della Torre e del Nasuto, continuarono per un bel po’ a imbattersi in bare sventrate dalla violenza delle acque. Le due esondazioni di circa un secolo fa, quando peraltro le casse di espansione dei due torrenti non erano ancora state modificate da errate operazioni umane, sono certamente dovute a due eventi pluviali eccezionali, ma non del tutto imprevedibili perché un bacino imbrifero così vasto e una barriera montana di mille metri alle spalle del mare possono concorrere a creare situazioni di emergenza. Può succedere due volte in otto anni o mai nell’arco di un secolo, ma in nessun caso bisogna abbassare la guardia. Ciò, in parole povere, significa che quando la natura diventa matrigna e decide di scatenarsi sul serio possono verificarsi eventi tragici anche in assenza di errori da parte dell’ attuale genere Homo. Il quale però, se davvero fosse sapiens sapiens (due volte!) secondo la nota definizione paleoantropologica, avrebbe evitato di dare una mano, tanto solida quanto stolida, a modificazioni ambientali tali da ampliare gli effetti avversi della natura. Purtroppo sembra che la ‘cultura dell’acqua’ e dei suoi fenomeni sia ancora lontana dalla coscienza collettiva. Ed è facile accorgersi che la storia non insegna molto, forse perché conosciuta troppo poco. Per rimanere in ambito marinese, segnalo che nell’uviale di S. Giovanni di recente è stato effettuato un insolito lavoro circa 200 metri a valle del Palazzo Bernotti/Gualandi di Capo al Piano, per l’appunto sventrato nella sua parte orientale dall’impeto dell’esondazione di 100 anni or sono. Come si può vedere dalla foto, l’ operazione idraulica (costruzione di un simil-ponte) non può non destare profonde perplessità. L’uviale, infatti, è stato intubato come se si trattasse di una semplice gora campestre. Sono stati cambiati profondamente profilo dell’alveo e capacità di ricezione: se prima poteva passarci un tronco di sei metri di lunghezza, ora sono sufficienti pochi arboscelli di traverso per dare il via alla formazione di una diga, per impedire il deflusso delle acque e per contribuire a gravi conseguenze. Non è necessario essere specialisti per capire che gli sbarramenti di un torrente, sia pure parziali, costituiscono un pericolo che, come dimostrano le tragedie dei nostri giorni, non deve essere sottovalutato. A mio avviso bisogna rimediare al più presto, magari eliminando quel singolare viadotto oppure sostituendolo con un ponte dotato di tutti i crismi di sicurezza. Concludo rivolgendo un commosso pensiero nei confronti di tutti Coloro che all’Elba e in ogni parte del Paese hanno perduto la vita, o il lavoro di una vita, a causa della furia della natura e della leggerezza dell’uomo.
Poggio fosso della nevera