Primo premio sezione poesia a Fabrizio Rossi Ho visitato gironi danteschi di anime perse Ho visto danzare tra ritmi tribali e sogni artificiali cuori e luci ombre e pensieri chimica e fisica. Mille e mille corpi bagnati, sudati spiati e ipnotizzati da possenti draghi e sensuali sirene in simbiosi con oniriche visioni Ho vagato smarrito lungo sentieri segnati da invitanti strisce di solubile magia. Ho baciato tra lucide mura bianche labbra senza volto in donne senza nome dove strisce di pelle e anime di vetro si contorcevano e si amavano Ii riflessi di vanità. Diavoli e angeli di un passato struggente ritornano, a volte, come la pioggia al mare. Primo Premio sezione prosa a Francesco Petrelli “Lettera a mia figlia” Ricordo quando avevi quattro, cinque anni. Irrompevi nella saletta dei colloqui con gli occhi brillanti. Non hai più avuto, crescendo, occhi così brillanti. Mamma ed io ti avevamo spiegato che tutto era solamente un gioco. Ti era stato raccontato che facevo un lavoro segretissimo, molto importante, e che potevo vedere solo te e la mamma, per poco tempo e in un luogo super protetto, pieno di guardie.. Non volevamo nasconderti la verità ma aiutarti ad affrontare questa esperienza senza l’ombra del dramma, della paura o dell’astio. Più tardi venne ineluttabile il momento della verità. Eri cresciuta ed, ormai, abbastanza “grande” da comprendere, almeno così speravamo, che la vita è fatta anche di vortici che annientano la ragione. Forse, fu da quel momento che i tuoi occhi cominciarono a brillare di meno. Un giorno mi chiedesti di prepararti una sorta di tabella con gli orari che scandivano la mia giornata. Così - mi dicesti – saprò sempre cosa stai facendo”. Mi dedicai con molto impegno a questo compito, disegnando un buffo ometto che mi ritraeva mentre stavo preparando il pranzo o correvo affannosamente dietro il pallone, in cortile durante l’ora d’aria. Volevo darti l’impressione che la mia vita in carcere si svolgesse normalmente, come quella di qualsiasi altra persona. Ti piacque l’idea dei fumetti, al punto che le tue lettere finirono per diventare piene di personaggi che mi raccontavano la tua vita. Tra i tanti, era immancabile la presenza del tuo “amico del cuore”, in realtà un drago di peluche piuttosto spelacchiato dal quale non ti separavi mai, cui confidavi i tuoi sogni. Sapessi quante volte mi sono sentito quel drago ed ho immaginato di dormire abbracciato a te, nel tuo lettino. Venne l’età difficile, quella dell’adolescenza, e nei tuoi occhi non più brillanti iniziai a leggere sprazzi di rancore. Talvolta accampavi banali pretesti per non venire ai colloqui con mamma. Stavi diventando donna e mettevi in discussione, giustamente, una figura paterna che non rispecchiava il modello comune di padre. Lo so che avresti voluto un padre diverso da me. Qualcuno di cui non doversi vergognare con gli amici, qualcuno che non avrebbe mai fatto ricadere i propri errori sulle persone amate. E’ stato, questo, un periodo molto difficile anche per me. Sentivo tutta la mia impotenza ripiombarmi continuamente addosso. La tua rabbia divenne la mia e mi rividi, adolescente come te, iniziare il drammatico gioco che si concluse con il carcere. La tua rabbia divenne il faticoso percorso della mia ricerca di una nuova identità che doveva risorgere dalle macerie della mia vita. Eravamo diventati entrambi viandanti del medesimo cammino. Anche tu, come me, dovevi capire chi eri, dove te ne stavi andando e dove ti sarebbe piaciuto arrivare. Avrei voluto proteggerti in questo tuo cammino. Avrei voluto poterti mostrare la strada più semplice tenendoti per mano. Essere il padre che volevi tu. Disperatamente cercavo qualcosa che potesse andare oltre le parole, le mie parole che non volevi più ascoltare. Mamma mi diceva che te ne stavi ore da sola, chiusa in camera tua, ad ascoltare musica che lei definiva demenziale. Allora, come preso da una folgorazione, mi venne da chiedere chi fossero quei rumorosi musicisti che accompagnavano la tua solitudine. C’era una canzone che ascoltavi più spesso e a volume più alto: “Come as you are” dei Nirvana. Recuperai il testo di quella canzone, ma era scritto in inglese e, così, cercai di tradurlo in italiano con l’aiuto di un vocabolario. “Vieni come sei, come eri, come voglio che tu sia….” Diceva la canzone, finendo con “… e giuro che non ho un fucile, no, non ho un fucile”. Te lo spedii, infine, senza altre parole. Ricordo, e non lo scorderò più, quel giorno che venisti, per la prima volta, al colloquio da sola, senza la mamma. Avevi in mano un pezzo di carta e gli occhi lucidi. Mi dicesti, tenendomi la mano che stringeva il pezzo di carta – Questa è la traduzione giusta di “come as you are”-. Ti strinsi a me e ti sentii rispondere al mio abbraccio. Ora potevamo riprendere, assieme, il cammino.