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A Sciambere: Ancora di abiti e monaci

Scritto da : Sergio Rossi
Pubblicato in data : martedì, 26 ottobre 2010

Caro Sergio, la simpatica diatriba fra l’on. Lucchesi e te su preti, abiti dei preti e facce da preti mi induce a qualche considerazione. Sono assolutamente d’accordo, anche se con motivazioni diverse, con l’on. Lucchesi sulla questione dell’abito talare (la tonaca, come la chiamava il vecchio prete evocato). L’equivoco di cui sei stato protagonista ne è la testimonianza: se i preti fossero riconoscibili con segni evidenti della loro funzione, non ci sarebbero possibilità di errore; e ti è andata bene che la gentile signora avesse solo occorrenza di un’innocente informazione: ti poteva capitare un qualunque efferato malvivente che, magari colpito da segni premonitori di morte, voleva depositare nelle tue mani l’estrema confessione dei suoi delitti chiedendone un perdono che tu non eri né tenuto né autorizzato a dare, per di più affidandoti un segreto rispetto al quale un prete è vincolato ma per te sarebbe stato solo un peso non indifferente; poteva capitarti un assessore nelle stesse precarie condizioni di salute e con analoga volontà; potevano essere uno sposo o una sposa fedifraghi, o –al limite- qualcuno che aveva fatto un torto a Sergio e ora –nella penombra dei sensi- lo confessava a “don Gianni”. Insomma, la tonaca non è solo questione di prestigio istituzionale (mi perdonerà il tuo autorevole interlocutore, ma ho trovato improvvido l’uso della locuzione “mandare a puttane”, che di fronte alla pratica della pedofilia mi parrebbe il male minore); è un segno d’identificazione che richiama una funzione, un servizio, appunto un “ministero”. Come la divisa dei carabinieri o degli agenti di polizia. Si può discorrere sulla qualità estetica dell’oggetto tonaca (e anche la divisa dei carabinieri non mi pare un gran che; e quella dei corazzieri la trovo di un kitsch abominevole): si può fare di meglio, e il clergyman mi pareva già un gran miglioramento; il prete, del resto, è sostanzialmente “sempre in servizio”, e l’abito sbracato con “maglioncini firmati e jeans e cardigan” li dovrebbe riservare quando decide di “smontare” (e magari “va a…”: ma allora il termine “smontare” magari non calza). Altrimenti sarebbe bene che fosse identificabile. Che l’abito non faccia il monaco è verità assoluta, come dimostra la ricordata tua “performance” teatrale. E questo vale anche per la faccia: conosco preti con volti “da prete” non indispensabili (su questo, però, esiste una tradizione storicamente indagabile); ma anche un numero cospicuo di non preti, e anche di mangia preti, con la stessa espressione (un po’ pia, un po’ buonista, un po’ cerimoniosa e compresa), nel loro caso spontaneamente o artificiosamente ingannevole. Conosco anche preti che si “rivelano” come tali per ciò che dicono o testimoniano (ho in mente subito don Ciotti), e allora la tonaca è un “in più”. Del resto anche Francesco d’Assisi portava il saio, ma non era certo quello a farlo riconoscere; mentre magari Bonifacio VIII, senza “cappellùn”, “mantellùn” e “anellùn” (come dice Fo in “Mistero Buffo”) si faticava un po’ a riconoscerlo come uomo di Chiesa. Venendo alla tua persona, non ti farò il torto di dirti che somigli a un uomo di Chiesa (nel senso che tu lo prenderesti come torto!); ma certo quel “tratto apparentemente burbero e l’apertura al sociale e alla solidarietà”… Diciamo che potresti essere un uomo di “religione”, se vogliamo nel senso che avrebbe usato il tuo amico Voltaire coi suoi colleghi: una religione civile, etica, politica. E chi sa che non sia giunto il momento di cominciare a predicare da capo una “buona novella” capace di “convertire” le menti e i cuori ad abbandonare l’idolatria pagana e a cercare “cieli nuovi e terre nuove”, anche se in questo mondo, in questo tempo, in questa realtà. Avendo in mente quanto diceva Giovanni della Croce: “Per raggiungere la meta che non conosci devi prendere la strada che non conosci” (che è il contrario dell’adagio popolare “chi lascia la via vecchia per la nuova” ecc., manifesto sempiterno di ogni conservatorismo). Poi, si sa, da cosa nasce cosa, e “lo Spirito soffia dove vuole”… Cari saluti, Reverendo. Luigi Totaro Caro Luigi Due colpi di "Reverendo" in tre giorni (oltre lo scambio di persona precedente) non lo nego, iniziano un poco a preoccuparmi, certo non mi incazzo come faceva Giampiero Berti allorché così veniva salutato sulle scale della Biscotteria da Uberto Lupi (per il quale a mia volta all'epoca ero "Il matto delle Giuncaie"), ma, come dire, questa inedita tenaglia Totaro-Grondaia comincia a stringere un po' troppo. Eppure, al contrario di D'Alema, pur di dire qualcosa di sinistra corro il rischio di farmi del male, questa storia della tonaca o abito talare mi ronzava per la testa mentre ieri (obbligato da mia sorella) riordinavo il mio guardaroba riponendone la parte estiva. Alla fine del lavoro mi sono accordo di qualcosa di realmente stupefacente: grazie soprattutto all'intercettare copiosi lasciti familiari (gli abiti usati non mi dispiacciono) ed una certa tendenza a conservare gli indumenti, pur dopo aver epurato la roba più datata avevo sugli scaffali un volume notevolissimo di roba. Senza scendere in dettagli ho contato solo tra Tshirt, polo e camicie leggere una sessantina (!) di capi. Roba da competere con la mitica collezione di spartiglie di Pasquale Berti. Mi sono pure un pelo vergognato di avere a disposizione più roba di quanta, anche mettendomici di proposito, potrei indossare nel corso della prossima stagione estiva. E sono finito per approdare in piena deriva autocritica a rimproverarmi: "Ma come... ogni tre per due fai l'elogio dell'austerità: da Francesco d'Assisi ad Enrico Berlinguer e poi ti ritrovi con un guardaroba consumistico-berlusconiano? Alla faccia della coerenza!" Certo se fossi stato un parroco ancien-régime, pensavo, meglio ancora un fraticello (ovviamente più furbo di Cimabue, ma per quello ci vuol davvero poco), il problema di vestirsi (e pure quello di accozzare i colori che per me è talora drammatico) me la sarei cavata con due tonache (un giorno addosso e l'altro al fosso). Poi però mi sono ricordato che l'uniformità del colore e della foggia di ciò che si indossa può avere degli spiacevolissimi effetti collaterali: l'orbace dei briganti fascisti, le camicie brune delle SS, il giallo delle casacche degli oscurantisti maoisti e dei sanguinari seguaci di Pol-Pot e per aprire del tutto il ventaglio dall'assassino ideologico alla (per ora) semplice testa di cazzo, al folklore-razzista dei verdi tonacati di Padania. Allora con laica rassegnazione ho pensato che è meglio in ogni senso un mondo variopinto, di pelle e di ciò che sulla pelle si mette, e che non ho proprio il fisico adatto a portare alcun tipo di uniforme. Ciò detto cari Luigi e Pino vi lascio ... non senza prima avervi impartito la mia benedizione


cappello di prete

cappello di prete