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Controcopertina: Luigi Totaro presenta: "E' tornato Pietro Gori"

Scritto da : Sergio Rossi
Pubblicato in data : domenica, 04 maggio 2008

Addio Lugano bella la conosco si può dire da sempre. Del Gori sapevo poche cose, a margine della storia del Partito Socialista di Turati; anarchici ne ho conosciuti negli anni dell’Università, un po’ dentro e un po’ fuori del Movimento, seri, radicali, attivissimi, poco comprensibili: parlavano poco, e noi eravamo così occupati ad ascoltare noi stessi… Poi, all’inizio degli anni Settanta, quando scelsi l’Elba come patria d’elezione, “incontrai” Pietro Gori a Sant’Ilario, per la lapide in piazza Alle Mura, proprio davanti alla porta della casa dove abitavo. E naturalmente mi abbandonai alla curiosità di capire cosa mai potesse avere a che fare il mio meraviglioso villaggio con un uomo come lui, e cosa poteva avere indotto il Popolo di Sant’Ilario –che mi appariva allora placidamente distratto da ogni passione politica– a erigere quella lapide dieci anni dopo la morte dell’Anarchico Gori, nel 1921; e a volerla poi “riconsacrare” nel 1946 dopo che il Fascismo, nel ‘40, l’aveva “violata”. E allora Romolo (il babbo di Alfonso e di Fabio, miei coetanei), l’unico che apertamente militava in politica (era socialista, ma suo padre era anarchico, e conosceva bene Pietro Gori) me ne parlò con passione e devozione, anche se al tempo della sua morte aveva solo due anni. Quando Patrizia e Sergio mi hanno proposto di presentare il libro E’ tornato Pietro Gori –e ne sono stato ben lieto, e sono loro grato dell’occasione che mi hanno offerto–, ho ritrovato proprio Romolo Martorella come primo “testimone” intervistato, appunto a Sant’Ilario il 6 febbraio 1974; e ho riconosciuto perfettamente il suo modo di dire, di interrompersi, di riprendere il filo per riabbandonarlo subito, sotto la spinta della stessa passione che ha conservato fino agli ultimi giorni. Voglio subito dire questo: la scelta operata dagli autori di mantenere assoluta fedeltà ai testi raccolti –anche quando era facile emendare qualche errore– si rivela felicissima, perché definisce il senso del lavoro svolto e lo colloca esattamente dove dall’origine era stato pensato: non una storia di Pietro Gori, ma la memoria storica del suo passaggio all’Elba, del suo stare in mezzo alla gente, della radicazione della sua figura nel ricordo ma anche nel mito. In questo senso illuminanti sono le Riflessioni sul materiale raccolto, svolte nel 1974 dagli autori e riproposte ora alla fine delle interviste, che fissano i termini metodologici del lavoro e permettono di apprezzare compiutamente il materiale documentario raccolto. E ugualmente interessanti sono le Riflessioni di trentaquattro anni dopo, poste dagli autori a conclusione della pre-sente edizione, che rendono ragione della stessa scelta di riproporre il testo e della nuova scelta editoriale di riordinamento a temi del materiale originario. Ho trovato anche assolutamente opportuna la decisione di non riprodurre alcune parti della primitiva ricerca, sicuramente utili per una storia del modo di pensare e fare cultura nei densissimi anni Settanta, ma forse un po’ lontane dalla attenzione e dalla curiosità del lettore di oggi. E tuttavia anche la lettura della prima edizione nel “Quaderno giallo” del 1974, che la cortesia dell’amico Giovanni Mortula –uno degli allievi che allora collaborarono con la professoressa Patrizia Piscitello alla ricerca– mi ha permesso di avere fra le mani, è davvero interessante: al di là della nostalgia per la tiratura a ciclostile –memoria di nottate passate a cospirare ai tempi della gioventù–, i numerosi inserti, saltati nella nuova edizione, testimoniano l’attenzione didascalica, la volontà di arrivare al lettore, di restituire all’universo culturale elbano la propria originalità, senza però escludere la comunicazione anche con coloro che a quell’universo non appartenevano. In tal modo quella ricerca (come questa edizione) si propongono come una vera e propria operazioneculturale , senza assolutamente cadere nel gioco ingenuo o paternalistico della esibizione del colore locale. Ma veniamo al contenuto. Le interviste sono condotte attraverso domande brevi e assolutamente non invasive: gli intervistati non sono pilotati verso nessuna risposta, ma si possono abbandonare all’evocazione e al ricordo, senza la minima preoccupazione di un vaglio delle cose che diranno: quasi condividesse-ro a priori l’opinione degli intervistatori, di essere in fondo proprio loro l’oggetto dell’indagine che si conduceva. Si ha così immediata l’impressione di un’autenticità assoluta, che non viene meno neppure di fronte alle contraddizioni fra le varie testimonianze, di fronte alle attribuzioni di aneddoti a una o un’altra situazione, o a citazioni che dovrebbero essere letterali e che variano di testimone in testimone. La bravura degli intervistatori –che non risulta attenuata, ma è anzi esaltata dal riconoscimento tributato ai maestri prestigiosi che furono sullo sfondo del lavoro– risiede proprio nell’essersi dissolti nella storia che andavano raccogliendo, senza lasciarsi turbare dal suo apparente disordine, dalle ripetizioni, dalle variazioni sul tema. La fedeltà cronologica delle testimonianze nell’ordine della prima edizione del 1974 rispose, mi pare, al bisogno di consegnare “intatto” un materiale prezioso e delicato: delicato, perché la fragilità totale della trama sembrava potesse reggere solo se tutto fosse rimasto come era all’origine, quasi che un qualunque intervento avesse potuto mettere in causa il lavoro svolto; prezioso, perché si dava voce a una memoria di popolo destinata a scomparire in breve termine, ed era memoria che testimoniava il perdurare di una passione civile, di una consapevolezza storica, di un orizzonte aperto che la follia di quei plumbei anni sembrava voler cancellare per sempre –e forse c’è riuscita–. Comprendo però e condivido la scelta odierna di riproporre lo stesso materiale ordinato per temi, che consente di seguire un filo di discorso altrimenti faticoso a causa della perduta consuetudine con un linguaggio ormai quasi scomparso, e della intervenuta abitudine a forme di comunicazione sintetiche e veloci. Del resto, a cento anni quasi dal tempo cui si riferiscono le testimonianze raccolte, più che l’ordine degli interventi diviene rilevante l’immagine che essi propongono, la fedeltà alla persona ricordata, la concordanza sostanziale nei giudizi. Il Pietro Gori che esce dalle pagine di questo libro, dalle parole dei suoi testimoni, è avvolto ormai nell’aura del mito: grande e commovente poeta, grande avvocato dei deboli, grande giusto; bello, alto, elegante; intrepido, coraggioso, sofferente; fedele, gentile, tollerante, mite, generoso, colto, studioso, affettuoso, rispettoso. Anche i testimoni che ci tengono a prendere le distanze dalle sue idee politiche –magari non proprio bene conosciute, ma sicuramente in odore di pericolosità– non si discostano dalla laudatio: ci sono, sì, sempre quei carabinieri e quegli arresti; ma anche i carabinieri sono costretti ad ammettere (sembrerebbero ben due casi, ma forse è lo stesso indicato per due situazioni differenti) che “se è pericoloso quello…”. Giovanna (anche lei ricordo vivacissima a Sant’Ilario, sempre al corrente di tutto quello che succedeva, nel privato e nel pubblico) si commuoveva alle sue poesie, e provava profonda ammirazione per l’uomo anche se certo non condivideva le sue idee; nutriva poi compassione per la sua vita travagliata, e ponendola in relazione con le idee umanitarie del Gori, ne faceva una sorta di giustiziere, di riparatore dei torti subiti dai poveri e dagli umili. L’aneddotica relativa alla sua attività di avvocato, certo quella più immediatamente comprensibile per il popolo, si colora di episodi al limite dall’agiografia, quasi eventi miracolosi di una prodigiosità basata sui motti arguti e sui colpi di scena tipici della tradizione teatrale e della novellistica popolare, dal Boccaccio in avanti. Naturalmente l’austerità dei tribunali e la puntualità del diritto sfumano di parecchio; ma non di quello si sta parlando: è il trionfo della giustizia dei poveri, e il confondimento dell’arroganza dei potenti. Così il popolo –raccontano i nostri testimoni– accorreva entusiasta ad ascoltare il predicatore taumaturgo, e non rimaneva mai deluso: “e li mandò assolti”. Anche quando gli imputati erano palesemente colpevoli, anche quando erano rei confessi. Perché per loro Pietro Gori riusciva a far valere l’attenuante fondamentale: erano “popolo”, erano il cristo addormentato che doveva destarsi e impugnare lo staffile come aveva fatto coi mercanti nel tempio: “Oggi è bottega il mondo e peggior traffico/ è nel tempio, ove son turbe di cristi./ Turbe di cristi che sconfitti dormono, per le navate in taciturne file/ come la merce esposta. O Cristo svegliati/ se non sei morto e impugna lo staffile” (poesia “Natale”, Portoferraio 1910). Di uno specifico interesse sono le testimonianze più politiche: perché, oltre la stessa figura del Gori, descrivono sull’Elba una sensibilità che il tempo presente tenderebbe a far apparire insospettabile. Ma vent’anni di fascismo hanno demolito ben altro che lapidi. Eppure L’Elba, all’epoca del Gori, era nel pieno boom di una espansione industriale che ne avrebbe alterato profondamente, e forse definitivamente, la cultura contadina, ponendo la società isolana al centro di un movimento che riguardava le grandi città del Nord, e che toccava i grandi temi della nascita delle organizzazioni dei lavoratori, degli scioperi, del rapporto con la politica. Il brillante avvocato formatosi nello Studio legale di Filippo Turati e subito entrato con lui in contrasto avendo già aderito al movimento anarchico, all’Elba non sembra fare attività politica aperta, limitandosi a un’opera di testimonianza, di educazione, di insegnamento politico –e del resto inizialmente era stato mandato a una specie di confino proprio per evitare il suo attivismo–. Nei circoli politici operai locali si sapeva delle sue posizioni e delle sue attività; ma dei contatti con lui si parla poco, quasi che –ancora come allora– non lo si volesse compromettere o non si ci volesse compromettere inutilmente. Però dalla riservatezza della signora Pietri si passa a Renato Galli “Lustrino”, suonatore della banda “Giordano Bruno” di Capoliveri, che con entusiasmo proclama “tutti anarchici eramo”; e di lì tanti aneddoti sulla vita avventurosa e faticosa dell’anarchico Gori in tutto il mondo, con forte enfasi sulle“mirabilia” più o meno attendibili, su vicende talora prese a prestito dalla vita di altri anarchici o con esse confuse: viaggi nel baule o nella botte, accoglienze trionfali a New York, in Argentina, ecc. E a suffragare l’autenticità dei racconti, l’autorità del capoliverese Quintavalle, il “rivale” (perdente) di Gaetano Bresci nel sorteggio per chi avrebbe dovuto ammazzare re Umberto I, il “re buono” che aveva lasciato Bava Beccaris sparare sulla folla a Milano nel 1898 –Gori era assente, ma fu accusato di aver sobillato il popolo, e condannato a dodici anni di carcere; e fu allora che scappò in Argentina–. Di volta in volta gli intervistati proiettano sul Personaggio-Gori l’immagine che più corrisponde alla loro emozione nel ricordare un tempo lontano. E in questo modo diventano essi stessi protagonisti, assumendo di volta in volta i tratti dell’anarchico o prestandogli la propria religiosità, la propria voglia di giustizia, il proprio entusiasmo. Naturalmente Pietro Gori aveva per conto suo entusiasmo e senso di giustizia, e forse anche religiosità, come testimonia la poesia citata sul “suo” natale, non riconducibile meramente alle frequentazioni infantili della parrocchia. Ma i testimoni, e soprattutto le testimoni, attribuiscono volentieri al “loro” personaggio i propri desideri, o almeno quanto vorrebbero che lui avesse desiderato: fino alla dichiarazione scritta di Virginia Scrocchi Arvecchi –la maestra di Sant’Ilario cugina del Gori– sulla catenina “con la medaglia della Madonna” al collo di lui morente, passando per il significativo commento di Giovanna Orzai Pisani: “… però credo che in fin di vita abbia rivolto il suo pensiero a Dio … [l’ho saputo] da questi vecchi… quando poi ha capito che era alla fine della vita… forse avrà detto… ‘tutto ciò che ho fatto è stato nullo’… lo ha riconosciuto, un ente supremo, qualcosa superiore a lui…”. Giovanna, nelle sue testimonianze, è quella che coniuga l’affetto appassionato per il poeta e l’Avvocato con la distinzione dalle sue idee che “certo non condivideva”: e alla fine conclude attribuendogli un ripensamento, una conversione in articulo mortis che racconta molto di più il suo desiderio che un effettivo accadimento. Pietro Gori, l’anarchico, l’avvocato, il poeta, lo scrittore, il drammaturgo ha una letteratura biografica assai più puntuale e documentata. Ma non è di questo che parla il libro di cui parliamo. La “verità effettuale delle cose” non cerca e non trova il suo luogo nei nostri paesi alti, nei nostri avi incantati dal fascino dell’uomo, dell’oratore, del combattente per la giustizia. Come oggi è nell’immaginario giovanile il Che Guevara; come dice Guccini del suo anarchico macchinista ferroviere “ma nella fantasia ho l’immagine sua/ gli eroi son tutti giovani e belli”. Un’ultima struggente citazione del nostro libro, dalla testimonianza di Letizia Del Borgia: “E dalle quattro arrivammo fino al mattino, tanto a un certo momento lui disse: ‘Bice, Bice, apri, apri la finestra! Fammi rivedere il sole! Fammi rivedere il sole!’ E lei aprì tutta la finestra, infatti il sole… perché lì è magnifico… inondò il letto addirittura… è spirato in questo momento”. Non si poteva concludere un romanzo su un eroe romantico con un epilogo più radioso. Non possiamo sapere neppure di questo se corrisponde al vero (anche se la testimone non mi pare possa esser stata in grado di inventare un finale così spettacolare). Consentitemi di concludere con una testimonianza nuova, di terza generazione; Giovanni, un carissimo amico santilariese, commemorando Pietro Gori in un’occasione che ora non ricordo, disse: “La lapide di marmo grigio, nella facciata di una casa di Sant’Ilario, la vedo da quando sono nato, e da lei ho imparato a conoscere Pietro Gori. A conoscerlo come lo conoscono a Sant’Ilario, dove c’è rimasto ancora qualcuno che l’ha incontrato di persona (a mio nonno ha insegnato a fare la firma, che era la sola cosa che sapeva scrivere), e qualcun’altro che era presente quando fu posta la lapide: colto avvocato, ma soprattutto un poeta predicatore di un mondo migliore, come dice l’epigrafe. Lascio a chi ne ha competenza di raccontare della sua vita. A me è bastato sapere che questo poeta doveva parlare forte e chiaro, se diciannove anni dopo l’omaggio del popolo santilariese la violenza di coloro che avevano incatenato le libertà ne aveva ancora paura. Se sei anni dopo l’oltraggio della distruzione, il popolo voleva quella lapide di nuovo al suo posto. Quelli che c’erano, quando la lapide fu rimessa solennemente dov’era e dov’è, li ho conosciuti quasi tutti -Romolo, Remo, Bruno, Ciofo, Giovanna-; e molti sono ancora vivi, babbi di quelli che hanno la mia età. Non molti di loro avevano studiato più di mio nonno, ma qualcosa li legava forte alla memoria di quel raffinato intellettuale che era il Gori. Ancora oggi la notte fra il trenta d’aprile e il primo maggio di ogni anno i maschi santilariesi cantano il maggio alle ragazze -anche ottantenni, purché nubili- del paese. Alla fine della maggiolata ci si trova sempre tutti sotto quella lapide, a cantare il maggio del Gori. Si tratta di una poesia appassionata e ingenua, accompagnata da un arrangiamento del Va’ pensiero di Verdi. Lo si canta tutti, anche quelli che, a sentir loro, sarebbero più vicini a chi la lapide la distrusse. E invece sono lì a cantare. Perché il legame con quell’antico, illustre ospite rimane oltre il trascorrere delle generazioni. La canzone è lunga, ma voglio ricordarne un solo verso: Vieni o maggio, ti aspettan le genti, ti salutano i liberi cuori. Questo aveva capito Pietro Gori della notte di maggio, e questo ci insegna ancora: che la libertà nasce e cresce solo insieme all’amore e alla poesia”. Come vediamo, la storia raccontata in questo libro continua ancora.


Copertina E TORNATO PIETRO GORI

Copertina E TORNATO PIETRO GORI