Tra le vittime -diciamo così- del gran sfarfallio polemico di dichiarazioni, interviste, documenti, in cui si sbadiglia tra rottamazioni a autocandidature metterei l’ambiente che tra inquinamenti spaventosi del mare come dell’aria, alluvioni e disastri vari che consumano e distruggono territorio e paesaggio non se l’è mai vista così brutta. L’ambiente, insomma, che Obama -quello vero e ‘abbronzato’ e non quello bianco che qualcuno aspetta- sta cercando di fronteggiare ingranando nuove marce politico-culturali come con fatica sta cercando di fare almeno parte dell’Europa. Noi no. E’ vero, abbiamo avuto anche i nostri ministri ombra, abbiamo ancora (così sembra) gli ecodem, ma tutto si può dire tranne che questo sia il tema che appassiona e impegna seriamente i nostri protagonisti litigiosi e sempre pronti ad autocandidarsi.. E’ vero che abbiamo anche qualche addetto alla ‘greeneconomy’ e anche qualche responsabile magari regionale che ogni tanto si fa vivo con qualche dichiarazione che si poteva tranquillamente risparmiare, ma il tutto finora è parso e pare poco più d’una mera etichetta che non può nascondere un dato di fondo e cioè che quello che ancora non appare per niente chiaro è che economia e ambiente ormai costituiscono non due aspetti e terreni separati o separabili. Così come non si può parlare di nuova politica ambientale a ‘prescindere’ dal ‘governo del territorio’ ossia da una vera riforma dello stato secondo il dettato costituzionale ( il nuovo titolo V del 2001) e non secondo il verbo leghista e i tanti documenti in circolazione che di chiaro hanno solo un ulteriore accentramento dei poteri a danno di regioni, comuni e province. Qualche articolo di Claudio Martini su l’Unità ha toccato questa questione ma siamo lontani da una posizione ‘nazionale’ chiara e forte che aiuti i soggetti istituzionali regionali e locali oggi con l’acqua alla gola a giocare una partita in cui le carte le stanno ancora dando e male gli altri. Prendiamo una questione che rientra alla grande in quella greeneconomy a cui abbiamo fatto riferimento e che è particolarmente impegnata sul fronte delle energie rinnovabili. L’eolico nel giro di poco tempo ha interessato e sta interessando 7000 comuni ossia una percentuale altissima dal nord al sud. Comuni contigui prevedono però pale diverse e così via. Il tutto andrebbe pianificato anche perché le pale non possono essere disseminate come i funghi per ragioni di paesaggio e non solo. Tremonti ha detto che l’eolico è veicolo solo di malaffare (aveva evidentemente presente la Sardegna) ed è illusorio, insomma ‘mulini a vento’. E se altri paesi lo fanno e bene chi se ne frega. Ma per pianificare e evitare insediamenti sbagliati e magari controllati dalla mafia o dalla camorra occorrono piani sovracomunali e regionali che però -come ha detto la Corte costituzionale- richiedono una legge nazionale che non c’è. Il discorso non cambia molto con le biomasse che potrebbero risultare sconvolgenti per l’agricoltura, i trasporti etc se non gestite secondo progetti dimensionati su scale accettabili. Idem con il fotovoltaico che può a sua volta e pesantemente danneggiare l’agricoltura se non gestito nell’ambito di politiche che oggi debbono misurarsi non solo con la dimensione nazionale ma anche europea. Qui il legame economia-ambiente è di tutta evidenza. E lo ancor più nella sua drammaticità se passiamo alla tutela del suolo, ai disastri quasi sempre annunciati sebbene il tutto sia regolatato da una legge molto importante come la 183 in parte però lesionata qualche anno fa nel silenzio pressoché generale e soprattutto non finanziata e lasciata nelle mani della protezione civile che però interviene appunto -come il soccorso di Pisa- dopo, a disastro avvenuto. La messa in sicurezza dei nostri territori contro le alluvioni che richiedono piani come ci ha ricordato anche recentemente un provvedimento comunitario, che siano in grado di fronteggiare con competenza e conoscenza scientifica esondazioni, gestione dei territori boscati, tutela della fauna e della flora richiedono lavori, spesa pubblica ossia l’esatto contrario di quella cementificazione che piace tanto e che sta mettendo in crisi la gestione dei parchi come del paesaggio. Qualcuno ha fatto il conto di quanto è costato e non soltanto in vite umane il mancato finanziamento di certi interventi in più d’un caso regolarmente progettati? Eppure c’è chi si accanisce sul costo di un gettone per un consigliere magari di un parco. E qui si tocca una questione di fondo che finora -va detto senza tanti giri di parole- non è emersa con la chiarezza necessaria e cioè che non solo ambiente ed economia sono due facce della stessa medaglia, ma che come tali richiedono una gestione -appunto quel governo del territorio restato finora lettera morta- integrata nelle materie e nei livelli istituzionali a partire da quello nazionale oggi più importante di ieri per le sue connessioni comunitarie. Governo del territorio che implica e richiede -bisogna non stancarsi di ripeterlo- un impegno concorrente tra stato, regioni e autonomie locali e non una architettura di tipo leghista dove ognuno opera separato e magari in competizione con l’altro; il nord contro il sud etc. Se in passato l’accento riguardo al tipo di federalismo italiano è stato posto sulla ripartizione delle competenze e materie che raramente poi ha trovato in sede nazionale le sedi e gli strumenti adeguati dove per le intese –come è stato detto dalla Corte- non deve valere il ‘principio di prevalenza’ della stato ma quello ‘concorrente’ con tutti gli altri soggetti, oggi . questo principio significa ‘leale collaborazione istituzionale’ che è anche la condizione essenziale per sedere da pari a pari al tavolo europeo. Oggi questa prospettiva che ha poco a che fare la spartizione dei pani e dei pesci leghista è pregiudicata anche dalle incertezze che gravano praticamente su tutti ruoli istituzionali. I comuni che dovrebbero essere un punto di riferimento essenziale sono con l’acqua alla gola e la sempre richiesta maggiore capacità di collaborazione specie per i più piccoli è resa problematica vuoi dalla sorte delle comunità montane, vuoi dal ruolo traballante e sempre a ‘rischio’ delle province che le induce anche a sortite poco autonomiste, a cui si aggiunge –e non è poco- che la crisi dei bacini ( distretti) idrografici e dei parchi riduce la loro possibilità di accedere al governo di politiche ambientali dalle quali altrimenti sarebbero di fatto tagliate fuori; si pensi ai piani di bacino e dei parchi. Da queste necessariamente sommarie considerazioni si può cogliere un altro aspetto che anche in Toscana non è stato ben gestito in questi anni ossia che la filiera istituzionale, quella che dovrebbe gestire da noi il PIT che aspetta di essere seriamente rivisto non può articolarsi efficacemente se considera soggetti di programmazione solo gli enti elettivi. Una filiera che in Europa non segue più nessuno perché la globalizzazione tra le tante altre cose ha cambiato la scala dimensionale dei problemi non più riconducibili -specie quelli ambientali- ai confini amministrativi. Se c’è qualcosa insomma da rottamare e non soltanto in Toscana sono vecchie impostazioni che fanno acqua da tutte le parti come si è potuto vedere anche negli ultimi anni.
piane al canale panorama bosco