E' un'atroce ingiustizia morire sul lavoro e di lavoro, ma lo è forse più ancora il morire per un lavoro che non si ha, che non si è riusciti a conseguire pur impegnandosi, pur avendo investito se stessi, l'amore e la solidarietà di una famiglia in una defatigante ricerca, che quando è vana può condurre i più fragili tra i nostri ragazzi ad ingigantire gli altri comuni problemi del vivere, ad acuire le solitudini, a vedere il proprio futuro come un muro di nero nulla in una stagione della vita nella quale si dovrebbe essere "carichi" di aspettative. Dovremmo qui scrivere la cronaca di un triste epilogo, di una vita terminata a 30 anni con un gesto suicidiario da parte di un ragazzo isolano emigrato in continente, uno dei tanti "buoni cervelli" che quest'isola è solita esportare. Potremmo cavarcela con il tecnico cinismo del mestiere, magari condito con un po' di pietà di maniera, ricordando i tratti essenziali di una vita: le buone modeste origini familiari, la laurea in psicologia in tasca, la scelta di un territorio diverso, il sogno di esercitare una professione, le idee pure innovative sul come farlo, le difficoltà a concretizzare, la depressione, quella bestia immonda che conosceva disciplinarmente, sperimentata, nel caso, su sé stesso. E poi i particolari i "frame" finali, il telefono che ripetutamente chiamato dall'Elba, suona a vuoto in quella casa lontana di Padova, e l'angoscia di una sorella triangolata su un amico che sta là, che prende l'iniziativa e forza la porta dell'abitazione trovando ciò che temeva oltre quella porta: quattro righe di commiato e una vita spezzata - particolari biografici - condoglianze alla famiglia - previsioni di esequie - fine. Ma due elementi ci forzano verso il deviare da questo canonico impacchettarvi il triste evento, il primo è che ad un'età in cui si dovremmo aver imparato ad arrenderci al fatto che "fisiologicamente" c'è chi non ce la fa, continuiamo ad incazzarci (sì incazzarci)ogni volta che la società, perdendo un suo giovane membro, si dimostra inadeguata, fallisce. Il secondo è che stiamo pensando a quanto deve suonare beffardo, per le centinaia di migliaia di giovani che cercano spasmodicamente il lavoro e con esso non solo la sussistenza ma pure la dignità, l'ottimismo di regime che ormai parla ad un paese di plastica lontano anni luce dai problemi, dal quotidiano vero della gente. Questo si avvia davvero a diventare un paese di plastica e di merda che ha coltivato il mito del successo inteso come egoistica sopraffazione del prossimo. Questo è un paese individualista e cattivo, spietato verso chi temporaneamente o strutturalmente si ritrova in difficoltà, questo è un paese in cui loschi figuri, dediti all'imbroglio da sempre, cianciano di meritocrazia e triturano meriti veri, valori professionali, culturali, sociali e persone. Soprattutto questo è diventato un paese anaffettivo, dove è utopia ragionare in termini di amore verso il prossimo, un paese vigliacco dominato da mille paure artificiali del diverso, un paese che ha smarrito ogni senso di fratellanza nel Cristo o nell'uomo. E' un paese da ribaltare è un paese nel quale va trovato un nuovo ordine. Per David che ha perso, c'è solo forse un fiore da deporre, per il futuro dei nostri figli e dei nostri nipoti, occorre tenere botta, e poi reagire, non farsi mettere sotto da questo schifoso individualismo fattosi sistema, il muro di nero nulla si può vincere, abbattere.
Fiori - Bocche di leone