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Qui Terra, 2055, l’ora dell’apocalisse

Scritto da : Sergio Rossi
Pubblicato in data : mercoledì, 23 settembre 2009

Articolo di Mario Tozzi su La Stampa del 22-09 Cosa pensava l'indigeno dell'ultima tribù mentre tagliava l'ultimo albero dell'ultima foresta dell'isola di Pasqua? A guardarla retrospettivamente, quella società primitiva che si è autodistrutta per un'insensata considerazione delle risorse, suscita riprovazione e incredulità. Ma gli uomini del villaggio globale del pianeta Terra, all'inizio del terzo millennio, non sono poi tanto diversi. «Avremmo potuto salvarci, ma non lo abbiamo fatto. Che cosa avevamo in mente quando, davanti alla prospettiva dell'estinzione, ci siamo limitati a scrollare le spalle?» Così parla, disilluso davanti a uno schermo futuribile, il protagonista narrante di The Age of Stupid, il documentario di Franny Armstrong che esce oggi in tutto il mondo, dopo aver archiviato tutta la memoria delle realizzazioni dell'ingegno dei terrestri e prima di inviarla nello spazio come ultima resipiscenza dell'umanità ormai nel baratro. Mentre egli osserva dal futuro 2055 i documenti relativi all'anno 2008, e riflette sugli ostacoli che impedirono di arrestare il cambiamento climatico, immagini dell'Artico completamente privo di ghiacci, delle Alpi senza più neve, di alluvioni e di eventi meteorologici a carattere violento descrivono un pianeta in balia degli elementi naturali con uomini indifesi come neppure nel Medioevo. La macchina dell'atmosfera ha un'inerzia molto elevata: ciò significa che - se pure oggi stesso smettessimo di gettarvi anidride carbonica - ci vorrebbe mezzo secolo per tornare ai livelli di riscaldamento indotto di oggi. E che, se vogliamo veramente fare qualcosa per impedire la catastrofe, dovremmo farla entro e non oltre il termine perentorio del 2015, l'anno al di là del quale nulla sarebbe più recuperabile. I dati che costellano il film sono veri, come pure basati su dati inoppugnabili sono gli appelli degli scienziati, ma mi pare già di sentire la ineffabile lobby dei minimizzatori prendersela con «i soliti catastrofisti» e chiedersi perché dovremmo spendere denaro contro un cambiamento che potrebbe dipendere dalle macchie solari o dai raggi cosmici. Nel film viene invece duramente spiattellata la scomoda verità, e cioè che solo l'1% degli scienziati ritiene che il cambiamento climatico non dipenda dalle attività degli uomini. Resta da domandarsi semmai perché i mezzi di comunicazione diano a quell'1% la stessa importanza riservata al restante 99%, inducendo nell'opinione pubblica un pericoloso luogo comune completamente falso, quello che i climatologi siano divisi in due schieramenti dello stesso peso (anche se in scienza uno solo potrebbe avere ragione, non c'è neppure un dato che ci faccia propendere per cause naturali nella situazione di oggi). Le contraddizioni sono semmai fra il resto degli uomini, anche fra gli ambientalisti o presunti tali, come emerge, nel film, dalla sconfitta dell'imprenditore inglese che non riesce a imporre le sue turbine eoliche alla comunità locale del Bedfordshire, spaventata dal non potere godere più del paesaggio dei nonni. Gli stessi cittadini sostengono poi di adoperarsi contro il cambiamento climatico in atto, ma non riescono a specificare come, mentre la famiglia dell'imprenditore vive in una fattoria a emissioni quasi zero, con una piccola pala eolica che provvede a quasi tutta l'energia elettrica. Quante sindromi «nimby» in Italia e quanta incapacità di fare qualcosa nel nostro piccolo, oltre che a livello imprenditoriale e governativo. C'è però spunto anche per la speranza, non quella del protagonista, imprigionato ormai nel futuro che non può essere cambiato, ma quella dei due bambini iracheni deportati in Giordania il cui presente, invece, deve essere ancora scritto e non è detto che non possa influire su quel futuro. E' la storia di uomini e di donne legati al petrolio che, dalla Nigeria all'India e da New Orleans alle Alpi, si rendono conto, a prescindere dai loro diversissimi ruoli sociali, che è arrivato il momento di fare qualcosa, se davvero vogliamo ancora descriverci come l'animale più intelligente del creato. Chi avrà 70 anni nel 2055, come il protagonista del film, rischia di guardare indietro con rimpianto a tutto quel che non ha fatto per fermare il cambiamento climatico. «La risposta all’emergenza ambientale definirà la nostra generazione - dice la regsita - così come la lotta per la libertà ha definito le generazioni passate». Nei vertici internazionali che si susseguono, invece, le posizioni coraggiose (come quella del Giappone che ha appena annunciato un taglio del 25% dei gas serra entro il 2020 rispetto ai livelli del 1990) sono largamente minoritarie e nessuno sembra rendersi conto di quanto governi e industrie siano indietro anche rispetto ai singoli cittadini, ormai attenti, almeno nel nord Europa, ai loro impatti quotidiani. Anche la rana - che si riteneva migliore - osservò: «Non è poi tanto calda», un attimo prima che l'acqua della pentola in cui era stata messa cominciasse a bollire.


terra ambiente pianeta

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