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Mi spuntò davanti, poco più che ragazzina

Scritto da : Sergio Rossi
Pubblicato in data : domenica, 26 aprile 2009

I suoi occhi che frugavano sulla mia incasinata e un po’ lugubre scrivania nelle stanze del PCI di Portoferraio, fino ad inquadrare la costola di un vecchio (già allora) quaderno di ricerche etnografiche, nel quale qualche minuto dopo si sarebbe tuffata, immersa. Era sbarcata all’Elba durante uno dei suoi “precariati”, non ricordo perché l’avessero spedita da me, più probabilmente era in corso una delle sue “zingarate cronachistiche”, nelle quali mi avrebbe trascinato, obtorto collo, anni dopo, quell’andare in giro apparentemente senza costrutto, ma che immancabilmente le servivano per trovare uno spunto, evidenziare un caso umano, scoprire una storia. Luana era poco più che una ragazzina, ed io un già maturo giornalista, per diletto, ma con quel tanto di snobismo che era consentito a chi scriveva sull’Unità toscana di Gabriele Capelli, restai comunque impressionato dalla sua vivace intelligenza dalla sua smania di capire. Ma rimasi strabiliato qualche tempo dopo, quando la vidi muoversi in tutta scioltezza suoi bordi della Navarma appena mutata in Moby, là dove quasi non osavano i sindacalisti, a sparare con la faccia più angelica domandacce su condizioni di lavoro e stato del naviglio a quei ragazzi scuri che venivano dal sud. Eravamo nei tragici giorni del Moby Prince e quel lavoro d’inchiesta diventò parte del “libro bianco sulla sicurezza della navigazione” edito dalla Regione. Ci convocarono a Firenze il giorno della sua presentazione. Nel salone ricco di storia, davanti ad un tavolo massiccio avevamo i colleghi della stampa e della TV davanti, officiava Vannino Chiti con altri personaggi “importanti”, Luana ad un certo punto mi sottrasse l’agenda e ci scrisse su: “Ma che ci facciamo io e te da questa parte?” Fu decisiva quella frase per cementare una complicità professionale, un’amicizia profonda a prova di anche notevoli incazzature, un filo comunicativo che niente e nessuno avrebbe mai potuto spezzare. Ricordo i suoi lunghi report telefonici da Pescara che mi faceva vedere con i suoi occhi e da Pistoia e per non perdere il vizio, chiedeva, indagava su quanto capitava all’Elba. che la affascinava – diceva - perché piena di personaggi strambi, l’Elba che chiamava “Macondo” . Quando ci tornò all’isola per me fu una grande festa, per la recuperata frequentazione di un’amica, diventata nel frattempo quasi parte della mia famiglia, e per sapere che nel giornale più importante all’Elba lavorava una collega con la quale c’erano, insieme a molte diversità, una infinità di assonanze sul come andava interpretato il mestiere e soprattutto su come doveva essere organizzata una società per dirsi giusta. E vennero anche gli anni in cui ci fu da sputare alle stelle, da affrontare il problema dei liquami del malaffare che scorrevano sotto la crosta di rispettabilità, di impunità dell’Elba, Elbopoli e casi limitrofi, conclusisi con alterne fortune (ma pure con alterna convinzione perorati) dalla pubblica accusa, venne il tempo di scrivere una parola che neanche si poteva scrivere, che non si era mai scritta nelle cronache elbane: “mafia”. E se quest’Isola è oggi (un po’) più pulita lo si deve all’impegno infinito alla pazienza, alla bravura ed al coraggio di Luana , trasparente come il vetro, fragile talvolta come il vetro, ma come il vetro quando serviva dura e capace di tagliare. Le piovevano addosso consensi, sì, ma pure critiche, minacce e qualcuno metteva il cappello sul suo lavoro. Lei si arrabbiava, ma dieci minuti dopo le sue dita andavano con la velocità che le ho sempre invidiato sulla tastiera, incassava la testa tra le spalle e macinava di tutto: dalle quotidiane pinzillacchere ai fatti che andavano maneggiati come ricci di mare per quanto rischio c’era di farsi male. Non era un mistero per nessuno che in quel periodo lavorassimo molto “di sponda” (lei al Tirreno, io ed Elena ad Elbareport, poi Umberto su Greenreport) . Un sindaco infastidito dal nostro lavoro ci definì sprezzantemente “certa stampa” noi incominciammo per burla a fregiarci del titolo di “Certastampa”, scritto attaccato, un circolo esclusivo dove poteva stare chi non aveva paura di cantarle chiare a chiunque, si dicesse di sinistra, di destra, di centro, di sopra o di sotto, dalla parte della gente (con preferenza per gli ultimi), dell’ambiente, della legalità. Lavoravamo senza padrini né padroni, senza curarci troppo dei suggerimenti o degli ammonimenti che venivano da sezioni, logge o sacrestie. E non facevamo pastette informative, mettevamo insieme le conoscenze, ci confrontavamo, poi ognuno faceva il suo diverso giornale, a tutto vantaggio dei lettori che crescevano su tutti i fronti. Curioso era che in realtà Luana fosse comunista, ambientalista, animalista, molto più radicalmente di quanto lo fossi io, ma che chi ci leggeva pensasse il contrario. Curioso ma spiegabile con la sua grande professionalità che univa ad una profonda tolleranza, ad una insaziabile sete di amicizie e ad uno sterminato amore per la gente. In questi due giorni mi sono scorsi davanti un’infinità di “film”: le ore passate davanti alle caserme, e nel canile occupato, pure di notte, stravolti in auto, la volta che volevamo documentare un po’ troppo da vicino l’incendio, ed il lancio d’acqua dell’elicottero ci inzuppò da capo a piedi, fino all’ultimo lavoro insieme: sui PEEP di Campo e di Lacona, dove scovò l’ennesima “storia umana”: quella dell’assurdità di una casetta abusiva che doveva essere abbattuta, ma che poteva essere ricostruita tre volte più grande, da una famiglia che non aveva una lira per farne due. E poi l’ultima telefonata non molti giorni fa, il suo scherzare sul dimagramento: “Deh, so’ rimasta senza culo!” e poi “Dai giù, o leggimi l’A Sciambere di oggi …” Ha ragione chi ha scritto che non se ne può andare una così, ti resta sempre troppo di lei dentro, sono sicuro che cento e cento volte mi ritroverò a pensare impaginando un pezzo: “Cosa ne pensa Luana?”


luana max gazzè

luana max gazzè