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Controcopertina: L'Italia è una repubblica fondata sul denaro

Scritto da : Sergio Rossi
Pubblicato in data : venerdì, 11 luglio 2008

“L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Così recita l’articolo 1 della nostra Costituzione. E’ sembrata affermazione quasi ovvia, ci si poteva perfino scherzare (“fondata sul lavoro degli altri”, ecc.). Solo oggi, forse, questa pietra miliare della nostra comunità nazionale riacquista tutto il peso della sua importanza appunto fondamentale. Poiché oggi quella solenne affermazione non è più vera: è stata messa in atto la più grave Riforma costituzionale che si potesse immaginare, e senza alcun atto formale che permettesse di riflettere, discutere, resistere. In maniera strisciante, ma ben determinabile nei suoi tempi e nei suoi modi, l’articolo 1 della Costituzione è nella prassi così riscritto: “L’Italia è una Repubblica demagogica fondata sul denaro”. Demagogia è la democrazia espropriata del suo carattere decisionale, ridotto a mera delega. Il denaro; il capitale, come avrebbe detto Marx; il mercato, come si dice oggi, altro non è che il lavoro espropriato della vita che lo produce, che lo esprime, che lo qualifica; è il lavoro ridotto a mera merce. Come è potuto avvenire tutto questo? E’ il risultato della “lotta di classe”, che il pensiero marxista intendeva come lotta di liberazione dei “proletari di tutto il mondo”, e che invece è stata sferrata dal capitale finanziario, riconducendo i lavoratori allo stato in cui si trovarono agli albori della Rivoluzione industriale, e facendo loro perdere i diritti, la capacità contrattuale, la cultura e la dignità conquistati in due secoli. Non intendo fare riflessioni ideologiche. L'articolo di Maurizio Ricci (“Republica”, 3 maggio), riportato ieri in 'Controcopertina' spiega bene il senso di quanto detto. E chi ha a cuore le sorti della Sinistra dovrebbe portarlo casa per casa la domenica mattina per leggerlo assieme al popolo sovrano perché si ricordasse che specchietti e perline servono solo a perdere la libertà. Dice Ricci “Se i rapporti di forza fra capitale e lavoro fossero ancora quelli di vent´anni fa, nelle tasche dei lavoratori ci sarebbero 120 miliardi in più. Secondo Stephen Roach, ex Morgan Stanley, la globalizzazione si sta rivelando un gioco in cui non è vero che vincono tutti. La lotta di classe? C´è stata e l´hanno stravinta i capitalisti. In Italia e negli altri Paesi industrializzati, gli ultimi 25 anni hanno visto la quota dei profitti sulla ricchezza nazionale salire a razzo, amputando quella dei salari, e arrivare a livelli impensabili ("insoliti", preferiscono dire gli economisti)”. Per dire che chi oggi riconosce la bassa capacità di spesa dei cittadini lavoratori forse dovrebbe anche riconoscere chiaramente che essa è complementare all’immensa ricchezza accumulata da chi detiene il capitale finanziario. Dovrebbe dire che non era vero che il costo del lavoro in Italia era spropositatamente alto. Dovrebbe dire che le favole sulla nostra società opulenta, che tanta attrattiva presenta per i derelitti extracomunitari, riguardano una esigua minoranza di cittadini che hanno praticato con disinvoltura la politica del proprio singolare interesse ignorandone le conseguenze future, anche per quell’interesse. Specchietti e perline, briatori e veline, miserabili storie di sesso e potere che anche fossero solo immaginarie racconterebbero la decadenza dell’intelletto di chi dovrebbe pensare piuttosto –a partire dai lavoratori e dai loro rappresentanti politici e sindacali− alla cruda, infelice, drammatica realtà della stragrande maggioranza dei cittadini di questo Paese. Il moralismo è la decadenza dell’etica, e costa tanto meno. Ci è stato dato in pasto un libro sulla nequizia della “Casta”, dei privilegi dei nostri rappresentanti politici. Forse è anche vero. Ma il brillante giornalista del “Corriere della Sera” non ci ha detto che negli ultimi quindici anni il cittadino Silvio Berlusconi, “scendendo in campo” –come ha detto−, ha guadagnato grazie alla sua posizione politica infinitamente di più dell’insieme di tutti gli uomini politici della “Casta” nello stesso periodo. In quello stesso periodo che copre l’ultima parte dei venticinque anni di cui parla il ricordato studio della Banca dei Regolamenti Internazionali, che ha visto il massiccio trasferimento di redditi dal lavoro dipendente al capitale finanziario Ma Berlusconi è stato votato dalla maggioranza degli Italiani, si dice: certo!, è l’effetto “Gigante, pensaci tu”, di cui narrava un lontano “Carosello”; è la delega all’idolo che rappresenta il desiderio (eidolon=immagine ideale) di un popolo che ha dimenticato libertà, uguaglianza, fraternità, per non parlare di cristiana charitas, ovvero dell’amore gratuito, che nulla chiede in cambio. E’ la demagogia, nella quale il popolo consente tutto al demagogo, perché rappresenta l’ultima spiaggia prima della percezione drammatica della propria sconfitta; e il demagogo non ha più bisogno delle Riforme istituzionali, ormai mera formalità, perché la sua “autorevolezza” gli deriva direttamente dal popolo, e lo rende superiore alle Istituzioni. Resta il fastidio della petulanza delle leggi ordinarie, e conseguentemente dei magistrati che pretendono di applicarle; e allora la lotta si concentra tutta lì, mostrando la ribellione della Magistratura additata addirittura come forza eversiva, nuovo Fascismo. Di più non si potrebbe. E’ questo il progresso? E questa la “globalizzazione”? E’ qui l’inesorabile cammino della Storia che non si può fermare e che non può tornare indietro? No. Molto meno. Un lucidissimo libro di Luciano Gallino (Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità, Bari Laterza, 2007, € 14) −anch’esso da “diffusione militante” per la Sinistra che si perde nelle solite banalità movimentiste che non movimentano più nessuno− ci riporta all’amara concretezza dei problemi e delle dinamiche in atto: l’insicurezza del posto di lavoro, per chi ce lo ha; la provvisorietà dei lavori “atipici” o l’incertezza di un qualunque lavoro; la necessità di accentuata flessibilità del lavoro come prodotto dell’allargamento dei confini economici. Dice Gallino: “La maggior causa della forte domanda di lavoro flessibile da parte delle imprese è la riorganizzazione globale del processo produttivo, attuata allo scopo di ridurre il costo del lavoro e insieme di poter disporre delle quantità di forza lavoro di momento in momento necessaria, conforme al criterio del “giusto in tempo”, dovendo soddisfare a vincoli formali minimi. Poiché il sistema dei diritti del lavoratori affermatosi nel Paesi sviluppati rappresenta al doppio scopo un serio ostacolo, la riorganizzazione si è concentrata anzitutto nella formazione di ‘catene di creazione del valore’ i cui anelli –gli impianti produttivi− vengono collocati in prevalenza, nel mondo, ovunque i salari e i diritti del lavoratori sono minori. In tal modo si sono posti direttamente in concorrenza tra loro un miliardo e mezzo di nuovi lavoratori ‘globali’ aventi diritti e salari minimi con poco più di mezzo miliardo di lavoratori aventi diritti e salari elevati” (p. 119-120). Elevati per comparazione, ovviamente, non più in valore assoluto. Dunque il Progresso non ha esportato nel mondo in via di sviluppo i diritti e i salari del mondo sviluppato, ma ha cercato e trovato nei paesi poveri le condizioni di uno sfruttamento non più possibile nei paesi ricchi, creando al tempo stesso le possibilità –attraverso il meccanismo della concorrenza fra lavoratori− per riprodurre condizioni di sempre maggior sfruttamento anche in questi ultimi. La concorrenza prodotta dalla delocalizzazione della produzione diviene minaccia per l’occupazione; e di fronte a tale minaccia l’offerta della “flessibilità” –non legata alle trasformazioni tecnologiche o di razionalizzazione di processi interni all’azienza− diventa quasi un’estorsione. Il lavoro non è più legato al lavoratore, ma è una componente del costo, è una merce come le altre. Il lavoratore non ha più una identità, una professionalità acquisita e riconosciuta: è una variabile sostituibile del processo produttivo, è un “pezzo” solo accidentalmente collegato a una vita, a dei desideri, a dei bisogni, torna a essere un “proletario”, cioè un produttore di beni e di figli, perché non manchino in seguito altri produttori di beni e di figli. Torna indietro di duecento anni, appunto. E in che modo il Sindacato potrà tutelare lavoratori che cambiano continuamente sede e lavoro? In che modo si potrà parlare di solidarietà? In che modo potrà organizzarsi una ‘lotta di classe’ anche solo per contrastare quella ‘lotta di classe’ intentata dai capitalisti delle imprese (il Socialismo è ormai la “favola bella che ieri t’illuse”). E poi: “Dell’essere umano è costitutivo il bisogno di poter dare una risposta definita sia alla domanda interiore ‘chi sono?’, sia alla domanda pubblica ‘chi sei?’. Dalla risposta alla domanda interiore dipende l’idea che un soggetto ha di se stesso, l’atteggiamento che reca verso il proprio sé. Dalla risposta alla domanda pubblica dipende l’idea e l’atteggiamento che gli altri, quasi tutti coloro con i quali viene in contatto, avranno verso di lei o verso di lui. Nel complicato percorso tra l’adolescenza e l’età adulta, tra la giovinezza e la maturità, per la maggior parte delle persone lo strumento più efficace per costruirsi una risposta ai due quesiti rimane il lavoro che si fa, o meglio che per lungo tempo si è fatto. Non arrivare a costruirla perché si sono fatti troppi lavori differenti, discontinui, cento volte interrotti in un luogo e ripresi altrove, è per molti una sofferenza, un costo umano in nessun modo computabile, e nondimeno greve a portare” (p. 79). Altro che telefonate piccanti del Premier. Mettiamoci a studiare, a parlare, a discutere, a dibattere, a controbattere tutti quelli ‘né di destra né di sinistra’ che vagheggiano climi distesi e costruttivi dialoghi con chi tiene in mano le vite di milioni di uomini e ne fa quello che vuole. Cominciamo a rompere i mille rinnovati specchietti, a sbarazzarci delle perline che ci ottenebrano la mente. E a guardare in faccia la realtà.


luigi totaro

luigi totaro