Il treno si blocca a Chung-Kiang, e su un letto d’ospedale compare un uomo dall’accento inglese purissimo, «gli occhi più del colore blu di Cambridge che di quello di Oxford», la barba lunga e nessun ricordo. Ma soprattutto lo sguardo ansioso di raccontare una storia che «se veramente ci crederai, sarà per la famosa ragione di Tertulliano –ricordi?- quia impossibile est». Com’ è finito lì Conway? Con che cosa si è confrontato mentre il mondo si dimenticava di lui, dopo quel misterioso dirottamento nel maggio del 1931 durante l’evacuazione da Baksul a Peshawar? Un aereo pilotato da un Indiano o un Afgano scompare con a bordo tre uomini e una suora missionaria, ma non atterra da nessuna parte. O forse al di là delle terre conosciute, oltre le montagne più alte: valli fertili e monasteri dall’architettura armoniosa «con la grazia di petali floreali sparsi su una rupe rocciosa», di tribù dalle facce amichevoli e dai dialetti misteriosi. Come duemila anni prima le colonne d’Ercole ora le vette del Himalaya e gli altopiani del Tibet sembrano voler nascondere le origini di altri miti. (il testo integrale della recensione è consultabile nella rubrica "Il Libro")
copertina Orizzonte Perduto