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“L’italiano brava gente” in Mediterraneo di Salvatores. Uno stereotipo che dura.

Scritto da : Sergio Rossi
Pubblicato in data : giovedì, 27 marzo 2008

Giovedì 20 marzo, all’interno della rassegna cinematografica Le isole dentro e intorno a noi, è stato proiettato Mediterraneo di Gabriele Salvatores. E’ stato il primo film in pellicola di cui abbiamo trovato la disponibilità di noleggio presso la Cineteca Nazionale di Roma. E’ il primo che inizia la seconda parte della rassegna dedicata al supporto analogico: Padre padrone, L’isola di Arturo, Il postino. Le vacanze pasquali non hanno intaccato significativamente la composizione, né il numero degli spettatori, sia in bene che in male. Tali erano nel corso delle proiezioni precedenti, gli stessi sono rimasti. Sono stato io ad introdurre il film di Salvatores e, forse spiazzando e tradendo le aspettative della platea, ho suggerito una lettura problematizzata dell’opera che tenterò di riprendere qui. Focalizzando l’intervento potremmo sostenere che la tesi di fondo, o meglio, il quesito aperto che ho sottoposto all’attenzione del pubblico è questo: perché in Mediterraneo Salvatores ripropone lo stereotipo del soldato italiano “brava gente”, ambientando il film durante la campagna in Grecia voluta da Mussolini nell’ottobre del 1940? Per quale motivo i suoi protagonisti ripercorrono interamente lo stereotipo che descrive il soldato italiano più buono degli altri, più umano ed aperto allo scambio con gli altri popoli? E’ stato uno scivolone storico oppure questo modello culturale è stato così introiettato nel nostro immaginario collettivo da essere riprodotto automaticamente? Per rispondere, inevitabilmente, è necessario aprire una parentesi storica su quella che è stata, come la definisce un ottimo documentario di Giovanni Donfrancesco, la guerra sporca di Mussolini. L’occupazione della Grecia, quella del motto truculento dello “spezzeremo le reni alla Grecia”, è voluta da Mussolini nell’autunno del 1940. La Germania Hitleriana sta vincendo rapidamente su tutti i fronti e Mussolini, che valuta erroneamente questi successi come una vittoria sicura e rapida, scende in guerra. Mussolini tiene Hitler all’oscuro di tutto. Il desiderio italiano è quello di sviluppare una propria strategia autonoma, un propria via all’Imperialismo, indipendente dalla Germania. Una politica estera che però della retorica arrogante e sprezzante della Germania nazista riprende toni e modi di fare. L’ultimatum intimidatorio che l’ambasciatore italiano Grazzi legge alle tre di notte del 28 ottobre 1940 davanti al primo ministro greco in vestaglia da notte non viene rispettato. Alla fine di ottobre del 1940 Mussolini aggredisce la Grecia. La guerra è del tutto fallimentare sia per la scarsezza delle risorse militari sia per errori tattici, sottovalutazioni, sbagli strategici. Dopo il fallimento clamoroso dell’offensiva guidata dal generale Braschi, Mussolini è così adirato che decide di far bombardare tutte le città con più di 10.000 abitanti. L’obiettivo dichiarato è quello “di spargere il panico ovunque”, ma il risultato è quello di seminare soltanto il terrore tra la popolazione civile, senza cambiare le sorti della guerra. La situazione è tanto critica che nel ‘41 la Germania di Hitler decide di combattere a fianco dell’alleato e nell’aprile dello stesso anno la Grecia è sconfitta. Le vicende più drammatiche, quelle vicende che condizionano orribilmente la campagna in Grecia dell’Italia e che mettono in crisi lo stereotipo del buon italiano, quello stereotipo che Salvatores stesso riprende facendo ripetere più volte ai suoi personaggi la battuta “italiano e greco, una faccia una razza”, cominciano proprio adesso. Ha inizio la guerra sporca. Dopo che la Grecia è capitolata, il territorio è diviso in due zone: i tedeschi controllano i punti strategici, gli italiani hanno il compito di controllare il resto del paese occupato. Da quell’aprile del 1941 all’inverno-estate 1943 la popolazione greca paga le spese dell’occupazione con le requisizioni dei raccolti e del bestiame operato dalle truppe italiane. La popolazione muore letteralmente di fame. Nell’inverno del ’42 le strade di Atene si riempiono di cadaveri. I morti sono più di 40.000. Il contesto drammatico dell’occupazione crea un terreno di odio, ostilità, desiderio di liberazione dall’occupante che determina la nascita di formazioni partigiane composte da nazionalisti e comunisti. Ed è a seguito degli agguati di queste formazioni che il volto dell’italiano brava gente cambia radicalmente. Il primo episodio di questa metamorfosi avviene tra il 16 e il 17 febbraio del 1943 nel paese di Domeniko, un piccolo inurbamento contadino nella Grecia continentale, al centro della Tessaglia. La mattina del 16 febbraio un gruppo partigiano attacca le truppe italiane ad 1 Km da Domeniko. Muoiono alcuni soldati. Poche ore dopo il generale Binelli, in linea con la strategia mussoliniana della guerra ai civili e del concetto cardine della corresponsabilità delle popolazioni locali agli attacchi terroristici ai danni delle truppe occupanti, ordina di distruggere il villaggio di Domeniko. Il paese viene bombardato, vengono bruciate le case, le stalle, viene dato fuoco persino al bestiame. La popolazione di Domeniko riunita e portata sul luogo dell’agguato verso il tramonto è disposta su due file, l’una di fronte all’altra, l’una su un lato della strada, l’altra su quello opposto. Da una parte gli uomini compresi tra i quattordici e gli ottanta anni. Dall’altra: donne, vecchi e bambini. Gli uomini vengono trascinati via con la scusante che dovranno essere interrogati. Ma alle 01:00 del 17 febbraio sono portati invece a Kafkafi, fucilati e seppelliti in una fossa comune. Erano 150, tra ragazzini e uomini adulti. Domeniko è il primo episodio di una strategia repressiva attuata dall’esercito italiano tra l’inverno e la primavera del ’43. Sono centinaia i paesi colpiti da questa azione repressiva, molti gli stupri di massa. A Làrissa viene aperto un campo di concentramento in cui sono fucilati più di 1000 prigionieri. E’ addirittura il comando tedesco a protestare per le violenze commesse dai soldati italiani. Alla faccia dello stereotipo dell’italiano brava gente! Mediterraneo di Salvatores è un film in cui il contesto storico fa da sfondo ad un racconto dai tratti favolistici rivolto essenzialmente al presente. Ci parla della condizione e dei sentimenti di un particolare tipo di uomo contemporaneo che, come suggerisce l’epigrafe in apertura al film, sta scappando. Da dove fugga quest’uomo post-moderno, questa generazione di quarantenni alle soglie degli anni ’90, è presto individuato dalla critica: scappa dall’impegno politico degli anni ’60 e ’70, dal crollo delle grandi ideologie, scappa dalla vita pubblica italiana, dalla vita metropolitana, fugge la città, il traffico, il caos, la rarefazione dei rapporti umani, fugge dalla possibilità di trasformare la società attraverso l’attivismo, dal collettivismo, dalle grandi utopie, dalle lotte. Dove approdi questa generazione è tutto un altro paio di maniche. Sembrerebbe andarsene molto lontano, oltre gli orizzonti, al di là del mare. Generazione che sperimenta altrove, in mondi arcadici (vedi l’ambientazione greca del film), in un universo mitico (la passione del tenente per Omero e la mitologia), la propria scoperta, il proprio fuggire, l’abbandonarsi ad una “vita naturale”. Una generazione che persegue, attraverso la sperimentazione di nuove forme di umanità, nuovi stili di vita, nuovi valori ed idee, una società in cui il nucleo centrale non è più la famiglia tradizionale, ma sono i rapporti di amicizia. Una nuova forma di società roussoiana, del ritorno alle origini, appunto edenica. Viene dunque da pensare che se Salvatores ha sfruttato l’ispirazione originaria dello sceneggiatore Monteleone, il quale ha letto la raccolta di racconti di Renzo Biaision intitolata Sagapò e ambientata durante la campagna in Grecia, lo ha fatto soltanto per le storie, le vicende, i personaggi, senza curarsi affatto della realtà storica in cui essi sono inseriti. Viene da pensare che la campagna in Grecia, intendendo la specificità di quella guerra, abbia fatto da pretesto narrativo per raccontare altro, di altro parlare che non fosse legato ad una realtà storica misconosciuta, complessa, imbarazzante e colpevole come quella. Certo Salvatores ci parla con un linguaggio antimilitarista, ci racconta di uomini che lontano dai comandi e dai conflitti bellici ritrovano forme di convivenza pacifiche, quasi universali. Purtroppo però per farlo, Salvatores riproporne lo stereotipo per cui l’italiano in guerra è stato migliore dei tedeschi, per cui il soldato italiano, tutto sommato povero pastore, contadino o operaio, è più umano a causa proprio della sua povertà originaria. Salvatores si sbaglia. In Grecia, come in Etiopia, in Istria, in Libia i soldati italiani non sono stati molto diversi da quelli tedeschi che occuparono l’Italia dopo l’8 settembre.


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