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Bergman e Stromboli: la terrà di Dio.

Scritto da : Sergio Rossi
Pubblicato in data : domenica, 09 marzo 2008

Il secondo Chi avrà mai l’audacia di uscire, per dirla con Schulz, in questa “notte buia e tempestosa”? Chi abbandonerà, ci chiedevamo, i tanto cari calori del focolare domestico per la visione impegnata e impegnativa dei 107’ neorealistici in bianco e nero? Alla luce di queste sconsolate e ignoranti riflessioni, la sorpresa di notare che la sala, al contrario, si riempiva consistentemente di spettatori vocianti è stata, come dire, emotivamente coinvolgente. Eccola qua la voce curiosa, lo spirito attento e critico, rispondente e interloquente di quest’isola misteriosa e del suo inabissarsi invernale. Eccolo qua l’ “eppur si move” elbano. L’iniziativa del giovedì sera circola e gira, accoglie partecipazione e consensi, basterebbe un manciata gulliveriana di pubblico giovane in più e potremo cominciare a fare il tutto esaurito e sederci per terra. Il grosso, ora ne siamo convinti, l’ha fatto sicuramente il film. Meraviglioso. Stromboli terra di Dio, come riconobbe immediatamente Ennio Flaiano nella primavera del ’50 dalle pagine de Il Mondo, è un capolavoro. E l’impegnativa, ma necessaria, incombenza di presentare questo capolavoro è stata assolta da Manuela Cavallin, vice-presidentessa di Hello Cinema, associazione che ha caratterizzato una eccezionale e larga parentesi di promozione cinematografica di alto livello all’isola d’Elba. Cavallin ha preso la parola sullo scranno conferenziale della De Lauger, avamposto retorico a dire il vero sempre un po’ imbarazzante, e ha fatto una toccante ed emozionata relazione, in cui lei stessa, originaria del grossetano, paragonava la propria scelta di vivere all’isola d’Elba, una scelta armonica e non conflittuale, con quella invece drammatica e angosciosa che determina il destino di Karin (Ingrid Bergman) nel film di Rossellini. La qualità della proiezione era buona. Eccezionale il bianco e nero della fotografia di Otello Martelli. Ma cosa dire che non sia stato già detto? Su Rossellini poi…il cineasta italiano per eccellenza, il Maestro del Neorealismo italiano, il regista di Roma città aperta e di Paisà. Un aspetto però esiste, non dico non trattato, ma che sicuramente, alla luce della nostra rassegna nel suo complesso, è possibile, se non proprio analizzare, almeno commentare, accostare, comparare con gli altri film, tematizzare appunto e ricondurre al trait d’union che sorregge l’impianto eterogeneo e articolato de Le isole dentro e intorno a noi. Che cosa rappresenta l’isola di Stromboli? Perché Rossellini sceglie proprio quel territorio insulare, così ostile e lontano ed altro? E cosa vuol dire per noi, adesso, a quasi sessant’anni di distanza, questa narrazione così asciutta e drammatica, quel mondo lavico? Che cosa si nasconde dentro il vulcano di Stromboli? La risposta è il titolo stesso: Stromboli è la terra di Dio, dove Dio redime le anime che hanno peccato. Il Dio di Stromboli è una divinità dai tratti paganeggianti, un Dio-vulcano punitivo e spietato. Gli abitanti lo pregano e lo temono. La Bergman non lo comprende affatto. Soltanto alla fine del film, quando per fuggirlo salirà fino al cratere eruttivo, in alto, in una notte dantesca e infernale, solo lì Karin (ri-)scopre un baluginio di fede. Là dove, anziché scappare o trovare la morte, sarà perdonata e costretta, implorante, a supplicare Dio per trovare una pace interiore che le permetta di vivere nel Regno divino dell’isola di Stromboli. Karin, lituana, perennemente in fuga, nomade delle vicende belliche della seconda guerra mondiale, corrotta da peccati e convivenze naziste, è una donna controversa, contrastante, spregiudicata, calcolatrice. Una figura femminile sorprendete per lo stereotipo cinematografico del tempo. Una donna così immorale, viziosamente borghese, vigliaccamente signorile che tenta persino di sedurre il parroco dell’isola pur di fuggire via, allontanarsi da quel mondo insulare in cui si sente, ed è, prigioniera di uomini che non la capiscono, di donne che la schivano, di stili di vita tanto necessariamente semplificati e crudi da risultare persino disumani e orribili, prigioniera di un isola mostruosa, che toglie il respiro, di scogli vulcanici demoniaci e tetri. E l’interpretazione della Bergman è così sensuale e profonda che questa femme fatal, in perenne sbaglio esistenziale, oscilla tra compassione e desiderio, tra redenzione e tentazione. Esemplare di questa sensualità la scena in cui Karin, ormai decisa ad abbandonare l’isola, si vende al bellissimo e giovane guardiano del faro in cambio di una cospicua manciata di lire che le servirà per traghettarsi a Messina. Nella grotta, appena sotto il paese, Karin conduce l’uomo per mano. Si siede sulla spiaggia ghiaiosa, gli si avvicina, si slaccia prima una scarpa, poi l’altra e, distesa, accarezza con il piede niveo quello scuro e mediterraneo di lui. La seduzione è compiuta. Tre mosse in tutto. E nonostante la scostumatezza pornografica necessaria per solleticare gli appetiti sessuali di noi navigati spettatori del XXI secolo, la Bergman – e Rosselini che la dirige – riescono a conquistarci, sedurci, eccitarci. Questa “pro-nipotina di Emma Bovary” , come dice ancora Flaiano, è veramente una peccatrice coi fiocchi: bella, emancipata sessualmente, crudele e spietata ma, contemporaneamente, sola, emarginata, scansata, disperata… Che figura complessa ha costruito alla fine degli anni ’40 Roberto Rossellini! Curioso il fatto che proprio qui, sul set di Stromboli, il regista si innamorasse perdutamente della Bergman. Dunque Karin vuole fuggire, ad ogni costo. Ma da cosa? In Stromboli terra Dio persistono ancora gli elementi fondanti del neorealismo. Elementi profilmici e filmici noti e conosciuti. L’aspetto interessante è tuttavia il seguente: Rossellini sceglie l’isola di Stromboli e la sua popolazione per rappresentare un mondo darwiniano semplice, originario e preborghese. Una cultura che affonda le sue radici in tempi immemori, “immobile”, che, molto romanticamente, è letta come portatrice di valori arcaici. Un mondo che scompare (nel film il paesino di Stromboli è un luogo di emigrazione), un mondo dei bisogni primari, un mondo timorato di Dio, punito, ma tenace, rude e resistente. Ecco si…nella Stromboli rosselliniana i personaggi resistono alla natura, sopravvivono lottando, ringraziando Dio e vivono col sudore del lavoro. Che ci fa in un mondo del genere, nel mondo di un Dio contadino e puro, una spregiudicata, e per giunta lasciva, borghese peccatrice? Come può la borghesia cittadina integrarsi con la realtà pre-industriale di un minuscolo paesino di pescatori dimenticato nel Mediterraneo? Ecco che la vicenda di Karin si riveste di significati allegorici più larghi che interrogano gli aspetti religiosi, aspetti molto cari al Rossellini cattolico, della società e della preannunciata modernità italiana degli anni ’50 e ’60. Prima di concludere, c’è un’altra scena che chiude il cerchio di queste riflessioni. Karin, raccolte le poche cose, ma soprattutto i soldi avuti dal guardiano del faro, si incammina sul vulcano per attraversare l’isola e giungere dalla parte opposta, dove spera di poter trovare un’imbarcazione a motore che la porti fino a Messina. Ma la scalata è dura, faticosa e quando arriva fino in cima al vulcano, a notte inoltrata, le esalazioni solforose l’accecano, la fiaccano, la stremano. Karin si sente mancare, si sdraia e, prima di svenire, guarda le stelle. Rossellini quindi, in soggettiva, direziona la camera da presa verso il cielo. L’inquadratura della scenografia cosmica è meravigliosa. Le stelle sono pugni luminosi che pulsano. Karin si calma, quasi sorride.”Vaghe stelle dell’Orsa”, scriveva Leopardi, “io non credea tornar ancor per uso a contemplarvi (…)”, ecco cosa deve aver pensato la povera Bovary rosselliniana sdraiata sulla terra nera di Stromboli. E quelle stelle leopardiane, stelle ammalate, come ricorda il filosofo rumeno Costantin Noica, che hanno preparato il nichilismo contemporaneo e che il pubblico del duemila guarda con sgomento perché non riesce (e non può) attribuirgli un senso - perché un senso non c’è, ecco quelle stesse stelle inquadrate dal regista del neorealismo, dall’occhio-Verità della macchina da presa, diventano per Karin la testimonianza di Dio, del Dio di lava di Stromboli. Karin si addormenta. Il mattino dopo torna di nuovo a guardare il paese del marito dall’alto della vetta. Nulla è definitivamente chiaro, l’illuminazione divina non è ceca follia negazionista, ma Karin questa volta implora Dio in modo diverso, non perché le regali un destino di fuga borghese, ma perché le dia la forza di resistere lì, di incontrarlo nel mondo mitico di Stromboli. Giovedì 13 marzo, sempre presso l’Auditorium del De Lauger, verrà proiettato L’avventura (1960) di Michelangelo Antonioni. L’ingresso è gratutito.


Bergman ingrid

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