Elias sente le voci, poggia il volto sui sassi e ogni sibilo, ogni gemito, ogni tuono lo pervade, il respiro dei viventi e le crepe della terra. Ognuno lo fa suo, in un dono che è anche maledizione; dal soffio del vento ai grugniti del maiale, ai battiti del cuore di chi sta nascendo, non c’è suono che Elias non riesca percepire, a filtrare dal suo orecchio straordinario e renderlo melodia, musica universale ma ignota, magia assoluta che irradia l’anima ma anche il corpo, che si deforma in una simbiosi fra note e materia, rendendolo unico, ora nella sua genialità ora nella sua brutalità. Diversità nell’anima ma anche nell’aspetto, che sublima la magia della trasformazione e ne diventa oggetto: “il mostro dagli occhi di piscio, sdraiato sul terreno umido del bosco deserto” , che incanta la platea quando con l’organo della chiesa compone e suona melodie sconosciute. Elias è il “mostro”, perché scava nella terra e va oltre la percezione immediata, Elias sente le voci e ne fa canto, le sente a tal punto da essere così diverso, da voler essere egli stesso terra e musica, materia e anima. Suona per Elsbeth, Elias, la sua danza dell’amore che non può conoscere confini e che pure si realizza nell’assoluto della non conoscenza, la musica che la terra lascia percepire a chi ha i talenti e la volontà di cercare. E la sua vita è tutta nell’ultimo capitolo, quello in cui Schneider ristabilisce i ruoli del vivere quotidiano, del sublimare le percezioni musicali in quelle più mediocri sepolte nell’anima mitteleuropea di un mondo che sarebbe destinato a sparire se Elias non fosse in grado di percepire “le voci del mondo”, e ne facesse la sua “missione”, convinto che “chi ama veramente non dorme, morirà dopo aver ascoltato ogni possibile rumore, per quanto piccolo e significativo, senza che il mondo abbia ascoltato lui, piccolo profeta di un amore da consumare in silenzio, come i battiti del cuore”. Approfondimento nella rubrica: Il libro
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