ANNIVERSARI Pasolini ambientalista Trent'anni fa la scomparsa dell'intellettuale friulano. Restano poesie, romanzi, film. E una denuncia: la civiltà dei consumi sta distruggendo il nostro paese. Un saggio di Roberto Chiesi da "La Nuova Ecologia" di ottobre. www.lanuovaecologia.it di ROBERTO CHIESI* La sera del 7 febbraio 1974 la Rai tv trasmise un nuovo, breve documentario della serie Io e..., intitolato Pasolini e ... la forma della città, a cura di Paolo Brunatto. I telespettatori non assistettero al consueto monologo di un intellettuale o di un artista italiano che descriveva un dipinto da lui particolarmente amato. Guidando l’obiettivo di una macchina da presa, Pier Paolo Pasolini mostrò invece agli italiani il paesaggio di Orte aggredito e deturpato da alcuni orrendi casermoni costruiti senza il minimo criterio urbanistico. Città a natura La pacata e implacabile voce dello scrittore-regista, di cui il prossimo 2 novembre ricorre il trentesimo anniversario della scomparsa, denunciava che «il problema della forma della città e il problema della salvezza della natura che circonda la città, sono un problema unico». Infine, nelle ultime immagini, dopo aver camminato nervosamente tra le dune di Sabaudia, all’improvviso Pasolini si fermò, esponendo alla telecamera il pallore di un volto sofferto e scavato, mentre chiudeva il documentario, parlando con una sincerità e un’asciutta drammaticità decisamente inabituali per i telespettatori di allora (e di oggi): «è proprio questo potere della civiltà dei consumi che sta distruggendo l’Italia e questa cosa è avvenuta talmente rapidamente che non ce ne siamo resi conto, è avvenuta in questi ultimi cinque, sei, sette, dieci anni... è stato una specie di incubo in cui abbiamo visto l’Italia intorno a noi distruggersi, sparire. Adesso, risvegliandoci, forse, da questo incubo, e guardandoci intorno, ci accorgiamo che non c’è più niente da fare». La metafora delle lucciole Di quell’incubo che era già l’omologazione di «un mondo inespressivo, senza particolarismi e diversità di culture, perfettamente omologato e acculturato» (come scrisse sul Corriere della sera il 17 maggio 1973 in Analisi linguistica di uno slogan), lo scempio del paesaggio naturale appariva uno dei segni più concreti e drammatici e anche più emblematici: l’industrializzazione incontrollata della penisola, tra i molti misfatti, si era sviluppata devastando il territorio, avvelenando la natura come inquinava gli italiani imponendo loro gli atroci modelli sociali e comportamentali della televisione. Le metafore adottate dal Pasolini “corsaro” e “luterano”, divenute, in seguito, di uso corrente (come l’espressione “il Palazzo”), rimandavano sempre a termini fisici e concreti, ossia al “corpo” della realtà. La scomparsa delle lucciole, che evocò in un celebre articolo pubblicato sul Corriere della sera il primo febbraio 1975 con il titolo Il vuoto del potere in Italia, non fu solo un’eloquente e densa immagine poetica, ma anche un’espressione che designava immediatamente una conseguenza dell’inquinamento ambientale. Anche se le lucciole, in effetti, non erano certo scomparse ovunque, Pasolini scriveva: «nei primi anni Sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria, e, soprattutto, in campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c’erano più». La frase che chiudeva l’articolo era una provocazione en poète, che assumeva però un significato di rivolta senza condizioni contro il mediocre cinismo dei fautori dello “sviluppo senza progresso”: «Io darei l’intera Montedison per una lucciola». Processo alla Dc Qualche mese più tardi, Pasolini evocò un’altra scena apparentemente paradossale: il processo all’intera classe politica democristiana. Uno dei capi d’accusa della requisitoria, apparsa su il Mondo del 28 agosto dello stesso anno, con il titolo "Bisognerebbe processare i gerarchi dc" era proprio la «distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia». Esattamente un mese più tardi, in un’incalzante retorica polemica pubblicata sul Corriere della sera con il titolo Perché il processo, scrisse che «i cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetta civiltà tecnologica si siano compiuti così selvaggi disastri edilizi, urbanistici, paesaggistici, ecologici, abbandonando, sempre selvaggiamente, a se stessa la campagna». Genocidio culturale L’antica cultura contadina che aveva ispirato l’epos friulano dei primi libri di poesia, e il sottoproletariato romano dei primi anni Cinquanta che era stato protagonista di un altro ciclo poetico con due romanzi (Ragazzi di vita, del 1955; Una vita violenta, del 1959) e tre film (Accattone, del 1961; Mamma Roma, del 1962 e La Ricotta del 1963), si erano brutalmente estinti, sottomessi a una nuova forma di genocidio culturale senza spargimenti di sangue. Prima del 1968 Pasolini aveva evocato nelle sue opere il mondo umile dell’Italia friulana e l’emarginazione delle borgate romane, un universo feroce e umano di esclusi. Ma dopo le immagini della campagna milanese di Teorema, non girerà più nessuna inquadratura del presente dell’Italia. Preferirà ricreare i luoghi del mondo popolare del passato (la Trilogia della Vita, 1971-1974) e alludere metaforicamente all’orrore del “mondo nuovo” attraverso l’atroce maschera sadiana e repubblichina di Salò (1975). Questo mutamento profondo e doloroso investe, nello stesso periodo, anche la sua poesia (vedi box). A viva voce «Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto (...) i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un “uomo che consuma”, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo». Basterebbero queste parole, del dicembre 1973 (in Acculturazione e acculturazione, sul Corriere della sera del 9 dicembre 1973), a dimostrare la forza “profetica” del pensiero di Pier Paolo Pasolini. Ma la sofferta critica della modernità rappresenta soltanto uno dei motivi dell’intensa attualità “inattuale” della sua opera. A trent’anni dalla sua morte, l’arte poliforme di Pasolini, l’inquieto e fertile sperimentalismo che ne attraversa la poesia, la narrativa, la saggistica, il cinema e il teatro, continuano a suscitare un’appassionata attenzione in tutto il mondo, anche grazie all’attività svolta per quasi tre decenni dal Fondo Pasolini di Laura Betti. * critico cinematografico, curatore del Centro studi Archivio Pier Paolo Pasolini della cineteca di Bologna Per saperne di più Gli autografi e i dattiloscritti originali di Pasolini sono conservati presso il Gabinetto Vieusseux di Firenze (www.vieusseux.fi.it), mentre il Centro Studi – Archivio Pier Paolo Pasolini della Cineteca di Bologna (www.cinetecadibologna/archivio/pasolini/archivio_pas.htm, www.pasolini.net/fondo-ppp_centrostudiBO.htm) conserva, fra l’altro, una sterminata bibliografia critica, le interviste e gli interventi audio e audiovisivi del poeta-regista. La sera del 7 febbraio 1974 la Rai tv trasmise un nuovo, breve documentario della serie Io e..., intitolato Pasolini e ... la forma della città, a cura di Paolo Brunatto. I telespettatori non assistettero al consueto monologo di un intellettuale o di un artista italiano che descriveva un dipinto da lui particolarmente amato. Guidando l’obiettivo di una macchina da presa, Pier Paolo Pasolini mostrò invece agli italiani il paesaggio di Orte aggredito e deturpato da alcuni orrendi casermoni costruiti senza il minimo criterio urbanistico. Città a natura La pacata e implacabile voce dello scrittore-regista, di cui il prossimo 2 novembre ricorre il trentesimo anniversario della scomparsa, denunciava che «il problema della forma della città e il problema della salvezza della natura che circonda la città, sono un problema unico». Infine, nelle ultime immagini, dopo aver camminato nervosamente tra le dune di Sabaudia, all’improvviso Pasolini si fermò, esponendo alla telecamera il pallore di un volto sofferto e scavato, mentre chiudeva il documentario, parlando con una sincerità e un’asciutta drammaticità decisamente inabituali per i telespettatori di allora (e di oggi): «è proprio questo potere della civiltà dei consumi che sta distruggendo l’Italia e questa cosa è avvenuta talmente rapidamente che non ce ne siamo resi conto, è avvenuta in questi ultimi cinque, sei, sette, dieci anni... è stato una specie di incubo in cui abbiamo visto l’Italia intorno a noi distruggersi, sparire. Adesso, risvegliandoci, forse, da questo incubo, e guardandoci intorno, ci accorgiamo che non c’è più niente da fare». La metafora delle lucciole Di quell’incubo che era già l’omologazione di «un mondo inespressivo, senza particolarismi e diversità di culture, perfettamente omologato e acculturato» (come scrisse sul Corriere della sera il 17 maggio 1973 in Analisi linguistica di uno slogan), lo scempio del paesaggio naturale appariva uno dei segni più concreti e drammatici e anche più emblematici: l’industrializzazione incontrollata della penisola, tra i molti misfatti, si era sviluppata devastando il territorio, avvelenando la natura come inquinava gli italiani imponendo loro gli atroci modelli sociali e comportamentali della televisione. Le metafore adottate dal Pasolini “corsaro” e “luterano”, divenute, in seguito, di uso corrente (come l’espressione “il Palazzo”), rimandavano sempre a termini fisici e concreti, ossia al “corpo” della realtà. La scomparsa delle lucciole, che evocò in un celebre articolo pubblicato sul Corriere della sera il primo febbraio 1975 con il titolo Il vuoto del potere in Italia, non fu solo un’eloquente e densa immagine poetica, ma anche un’espressione che designava immediatamente una conseguenza dell’inquinamento ambientale. Anche se le lucciole, in effetti, non erano certo scomparse ovunque, Pasolini scriveva: «nei primi anni Sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria, e, soprattutto, in campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c’erano più». La frase che chiudeva l’articolo era una provocazione en poète, che assumeva però un significato di rivolta senza condizioni contro il mediocre cinismo dei fautori dello “sviluppo senza progresso”: «Io darei l’intera Montedison per una lucciola». Processo alla Dc Qualche mese più tardi, Pasolini evocò un’altra scena apparentemente paradossale: il processo all’intera classe politica democristiana. Uno dei capi d’accusa della requisitoria, apparsa su il Mondo del 28 agosto dello stesso anno, con il titolo "Bisognerebbe processare i gerarchi dc" era proprio la «distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia». Esattamente un mese più tardi, in un’incalzante retorica polemica pubblicata sul Corriere della sera con il titolo Perché il processo, scrisse che «i cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetta civiltà tecnologica si siano compiuti così selvaggi disastri edilizi, urbanistici, paesaggistici, ecologici, abbandonando, sempre selvaggiamente, a se stessa la campagna». Genocidio culturale L’antica cultura contadina che aveva ispirato l’epos friulano dei primi libri di poesia, e il sottoproletariato romano dei primi anni Cinquanta che era stato protagonista di un altro ciclo poetico con due romanzi (Ragazzi di vita, del 1955; Una vita violenta, del 1959) e tre film (Accattone, del 1961; Mamma Roma, del 1962 e La Ricotta del 1963), si erano brutalmente estinti, sottomessi a una nuova forma di genocidio culturale senza spargimenti di sangue. Prima del 1968 Pasolini aveva evocato nelle sue opere il mondo umile dell’Italia friulana e l’emarginazione delle borgate romane, un universo feroce e umano di esclusi. Ma dopo le immagini della campagna milanese di Teorema, non girerà più nessuna inquadratura del presente dell’Italia. Preferirà ricreare i luoghi del mondo popolare del passato (la Trilogia della Vita, 1971-1974) e alludere metaforicamente all’orrore del “mondo nuovo” attraverso l’atroce maschera sadiana e repubblichina di Salò (1975). Questo mutamento profondo e doloroso investe, nello stesso periodo, anche la sua poesia (vedi box). A viva voce «Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto (...) i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un “uomo che consuma”, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo». Basterebbero queste parole, del dicembre 1973 (in Acculturazione e acculturazione, sul Corriere della sera del 9 dicembre 1973), a dimostrare la forza “profetica” del pensiero di Pier Paolo Pasolini. Ma la sofferta critica della modernità rappresenta soltanto uno dei motivi dell’intensa attualità “inattuale” della sua opera. A trent’anni dalla sua morte, l’arte poliforme di Pasolini, l’inquieto e fertile sperimentalismo che ne attraversa la poesia, la narrativa, la saggistica, il cinema e il teatro, continuano a suscitare un’appassionata attenzione in tutto il mondo, anche grazie all’attività svolta per quasi tre decenni dal Fondo Pasolini di Laura Betti. * critico cinematografico, curatore del Centro studi Archivio Pier Paolo Pasolini della cineteca di Bologna Per saperne di più Gli autografi e i dattiloscritti originali di Pasolini sono conservati presso il Gabinetto Vieusseux di Firenze (www.vieusseux.fi.it), mentre il Centro Studi – Archivio Pier Paolo Pasolini della Cineteca di Bologna (www.cinetecadibologna/archivio/pasolini/archivio_pas.htm, www.pasolini.net/fondo-ppp_centrostudiBO.htm) conserva, fra l’altro, una sterminata bibliografia critica, le interviste e gli interventi audio e audiovisivi del poeta-regista.