In questo brutto giorno per l’umanità (in cui questa è stranamente non colpevole) mi rimane certamente difficile isolare la mente per parlare d’altro. Voglio però “buttare giù due righe”, come direbbe il nostro amico Pernaciro, per parlare di uno spettacolo a cui ho piacevolmente assistito, anzi partecipato (perché a teatro il pubblico partecipa, non assiste). Non voglio recensire lo spettacolo (non ne sono di certo in grado) o fare una “smielata” a favore di questo (non ce ne sarebbe bisogno), vorrei solo dire ciò che “American Bar” mi ha fatto provare, dove quel “viaggio” ha portato la mia mente. Lo spettacolo ha visto una netta separazione tra l’esilarante primo tempo e il più riflessivo secondo tempo (stile “La vita è bella”) che mi ha lasciato quel senso di pienezza e soddisfazione totale, è difficile da spiegare ma le tante sensazioni provate quella sera, allegria, sconforto, speranza, impotenza di fronte ai tanti problemi del mondo, rabbia, ribellione hanno dimostrato come l’uomo può esser protagonista nel bene e nel male. Lo definirei “uno spettacolo a 360 gradi”. La forza di “American Bar” è stata proprio la divisione tra i due tempi: c’è un momento per ridere, per divertirsi ma c’è anche un momento per affrontare alcuni problemi della nostra società (che non possono esser trattati insieme), senza mai cadere nel retorico, nel volgare, nello strumentale. Il gioco del “viaggio” ha fatto si che si trattassero argomenti scottanti e spinosi come la pena di morte e la pedofilia con un linguaggio semplice e comprensibile per la varietà generazionale del pubblico accorso numerosa. Ma mentre questi temi erano molto precisi e non lasciavano la mente libera di spaziare, il racconto dell’ultima tappa del viaggio, Seattle, città chiave della Microsoft, quando parla di una strada lunga, diritta con una scritta “Microsoft” rossa lampeggiante all’orizzonte, ha fatto si, a mio parere, che ognuno capisse che bisognava uscire dal coro per farsi sentire, per risolvere problemi diversi, a seconda del proprio modo di vedere il mondo. Sicuramente chi non ha visto lo spettacolo non capirà niente di ciò che ho scritto ma infatti non era questo il mio obiettivo, perché io ho voluto raccontare le mie emozioni, sperando che siano per lo più simili a quelle che gli attori hanno voluto trasmettere. Si può tranquillamente dire comunque che il mio giudizio su “American Bar” sia di parte, perché è tanto l’affetto, la stima, la simpatia che provo per Federico al quale rivolgo un caloroso abbraccio e speciali complimenti.
mukke pazze divina tragedia vigilanti teatro