L’identità elbana è alla frutta. E dalla frutta (quella secca) potrebbe ripercorrere indietro tutta la strada che la divide dalle sue origini, in un itinerario di gusti e profumi sepolto dalla colata del turismo balneare. La “Recherche” elbana potrebbe iniziare con la riscoperta e la rivalutazione del Marrone fiorentino, fatto introdurre dai Medici, che nel corso dei secoli si è accomodato così bene sull’isola che dalla soglia dei 600 metri è sceso fino a 300 metri sul livello del mare. Adesso le sue proprietà organolettiche non sono uguali a nessun altro castagno del pianeta. Una lezione da non trascurare, per chi vuol fare un turismo dal volto elbano. Carlo Eugeni, delegato responsabile di Slow Food per l’Elba, pone domande semplici: “esiste un ristorante che proponga ai suoi clienti le castagne arrosto?”. Una lezione di semplicità ed identità viene anche dalla Cipolla della Zanca, una cipolla rossa e schiacciata, anch’essa molto probabilmente tolta dalle stive di Cosimo, e tramandata dalla pazienza dei contadini zanchesi. Sopravvive soltanto in quella frazione marcianese, negli ultimi orti sottratti ai residence, e sono in pochissimi a conoscerla. L’aceto elbano invece era apprezzato dai Medici per il suo carattere aromatico molto deciso e veniva usato per insaporire i banchetti rinascimentali. “Ci sono madri molto vecchie – dice Carlo Eugeni – che venivano conservate in contenitori di terra o di vetro”. Esisteva un grano particolarissimo, il Biancolino, coltivato nella zona di Capoliveri, probabilmente introdotto dagli spagnoli. Era un grano molto profumato, che dava al pane una fragranza particolare. Non esiste più, sicuramente sterminato dalla micidiale “paiola bianca” capoliverese. Ma anche i cachi ed i fichi d’India che tuttora punteggiano il territorio non vengono utilizzati dalla cucina elbana. “Non esiste più la frutta secca con la quale si riempivano le calze della Befana – ricorda Eugeni – dove sono i fichi secchi e le madorle secche? Abbiamo contato 176 mandorli abbandonati.” Ci siamo fatti soffiare il presidio (il punto per preservare il prodotto tipico ndr) della palamita da San Vincenzo perché qui non si trovava nessuno disposto alla lavorazione del pesce sott’olio”. “Conoscere meglio per recuperare e valorizzare” è la ricetta che viene da Slow Food per superare la crisi strutturale elbana.
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