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Controcopertina: Un altro ragazzo se n'è andato

Scritto da : Sergio Rossi
Pubblicato in data : domenica, 31 ottobre 2004

«Professore, ma non ha capito che oggi solo pochissimi possono permettersi di avere una personalità? I cantanti, i calciatori, le attrici, la gente che sta in televisione, loro esistono veramente e fanno quello che vogliono, ma tutti gli altri non sono niente e non saranno mai niente. Io l’ho capito fin da quando ero piccola così. La nostra sarà una vita inutile. Mi fanno ridere le mie amiche che discutono se nella loro comitiva è meglio quel ragazzo moro o quell’altro biondo. Non cambia niente, sono due nullità identiche. Noi possiamo solo comprarci delle mutande uguali a quelle di tutti gli altri, non abbiamo nessuna speranza di distinguerci. Noi siamo la massa informe». Queste parole di una sua allieva, riportate da Marco Lodoli in un articolo pubblicato il 18 ottobre su “la Repubblica”, sono una rivelazione semplice e folgorante. Quella descritta dalla giovane studentessa della periferia di Roma è la prospettiva di vita che, in generale, si apre agli occhi dei ragazzi di oggi. Non è molto, mi pare. Neppure i loro genitori hanno avuto vita facile. Nati nel dopoguerra, hanno sentito mille vol-te parlare della fame patita dai vecchi, della fatica della Ricostruzione, del lavoro alla montagna “da stelle a stelle”, delle prime ‘Vespe’, dei ‘circolini’ di paese. Poi è venuto il ‘boom’ economico, e la ‘corsa all’oro’ è divenuta la ‘nuova frontiera’. I genitori dei ragazzi di oggi sono cresciuti nel mito del benessere da conquistare, del lavoro iniziato dai loro genitori da portare a compimento, della ‘posizione’ da raggiungere, della politica da gestire o da dominare. E molti ci sono riusciti; e oggi possono con orgoglio offrire ai loro figli il frutto del loro impegno: tutto quanto loro da piccoli non avevano potuto avere se non in misura minima e con grandi difficoltà. E continuano a perseguire quello stesso obiettivo, che si identifica ormai con la vita, mettendo mattone insieme a mattone, appartamento insieme ad appartamento, risparmio accanto a risparmio, tutto per la famiglia, per i figli, come tutti o almeno i migliori, perché si fa così. Non si chiedono mai se ‘sono’ felici, se i loro figli sono felici. E soprattutto non glielo chiedono mai. Certo è gratificante ‘avere’ tante cose, e ogni volta che ne arriva una nuova si fa festa. Ma quanto dura quella festa per la torrenziale vita di un adolescente? Cosa gli importa di sapere come si fa ad avere tante cose, che per ora ha perché i genitori gliele procurano? Cosa gli importa che si dica che i suoi sono grandi lavoratori? Basta per essere anche un buon padre e una buona madre? Siamo certi che il prezzo dell’agiatezza, pagato con la solitudine quando non con l’abbandono a se stessi, valga per loro quanto ai genitori, alla gente, sembra che dovrebbe? E può bastare l’agiatezza a costituire una prospettiva di vita, può riempire la vita di giovani che alla vita si affacciano? Il modello adulto che si offre ai loro occhi è capace di infondere loro forza? L’impegno nella costruzione di condizioni di ‘benessere’ si è concretizzato in esistenze felici, in persone realizzate, fiduciose e capaci di amare? O piuttosto l’aver trasferito tutto nella dimensione del ‘possedere’ –dallo zainetto alle mutande ‘firmate’ passando dai motorini, per tacere dei telefonini– non ha lasciato vuoto l’‘essere’? Così il giovane amico Campese ci dice: “Per questo vi scrivo… per dirvi che, in un’isola ‘felice’ come la nostra i giovani non hanno importanza per la società. Nessuno investe su di noi, che siamo il futuro;... ma soprattutto non ho più fiducia in questa società perché questa non crede in me come altri della mia età”. Abbiamo fatto tutto per loro, abbiamo messo loro a disposizione tutto quanto potevano volere, e ci rimproverano di non ‘investire’ su di loro? Che cosa può voler dire questo, se non che le generazioni adulte continuano a investire su di sé, e sempre allo stesso modo: sulla laboriosità, sulla parsimonia, sulla ‘concretezza’, chiuse in un mondo piccolo piccolo dal quale spesso si esce non per conoscere il fuori, ma per esibire le proprie possibilità economiche (e i figli, dietro, almeno finché son piccoli, anche se dovrebbero andare a scuola: ma i genitori sono liberi solo allora). D’estate, a lavorare, così imparano. Eppure potrebbero andarsene a giro per il mondo, a fare quello che i genitori non hanno mai potuto fare e ora non sanno fare più. D’inverno, la scuola, o il nulla (54 su 100 all’Elba non finiscono le superiori: se non hanno voglia di studiare, andranno a lavorare, e così il modello dei genitori si replica). E giù Grandifratelli, Veline, Isoledeifamosi e via andare. Forse i nostri giovani ci stanno dicendo che l’identificazione realtà-reality show li diverte ma non li inganna. Che l’amore diafano di Luisa di Rivombrosa vorrebbero vederlo meno sfumato e in casa, a scuola, in paese. Che l’orizzonte chiuso della loro vita esportata in televisione o al cinema comincia a soffocarli. Che la scuola non dà loro gli strumenti per immaginare orizzonti più aperti, che la Chiesa non sa più turbarli con la sua ‘scandalosa’ speranza. Che nel mondo degli adulti non vedono fluire la vita, e che per questo non hanno neppure più voglia di fare “il mestiere di tutte le generazioni…, quello di mettere in discussione la precedente”, come dice Sergio Rossi nella sua bella nota alla lettera del ventenne campese. E forse il problema non è neppure “se almeno abbiamo messo in grado i nostri figli di contestarci, se siamo riusciti a trasmettere loro dei valori e dei riferi-menti, lasciandoli liberi di gettarli alle ortiche ma dopo essercisi misurati”, quanto piuttosto che valori e riferimenti incapaci di rendere felici noi non possono essere interessanti per loro. Forse ci stanno dicendo che vorrebbero che li guardassimo negli occhi, e dicessimo loro come uscire dall’angoscia della vita che non parte. Ma noi siamo occupati a lavorare “per loro”. E così eccoli a disperdere il tempo magico della loro primavera nei riti noti della discoteca, dell’alcol, delle pasticche, delle erbe, delle polveri e chi più ne ha più ne metta; nell’anonimato dell’omologazione dei tatuaggi, dei piercing, delle orrende mode; dei gerghi di cinquanta parole, del tirar tardi, del non far niente. Nessuno ha insegnato loro a riconoscere la vita, e allora giocano con la morte. Fino a che non arriva sotto forma di assuefazione alla routine, all’abitudine, alla disperazione. Fino a che non arriva con una corsa in macchina verso non importa dove. Fino a che non arriva con una overdose. O in una macchia di lecci davanti al mare. La morte di un giovane appartiene a tutti. Anche se non lo si conosce, anche se si è lontano. Certo, il dolore dei suoi è incommensurabile: ci fermiamo con rispetto sulla soglia del loro dramma, sperando che possano elaborarlo nella tenerezza dei ricordi più lieti. Ma in una comunità piccola ci si conosce un po’ tutti, e tutti siamo vicini. Per questo si sente il bisogno di parlarne. La morte, è vero, fa parte della vita; ma morire a neanche vent’anni è contro natura. E morire in solitudine è un grido lacerante che ci chiede di voltarci. Non cerchiamo ‘ragioni’ personali, che sono effetti e non cause di una disperazione che le precede, e che rimanda di nuovo a un mondo adulto che non ha saputo costruire la speranza. Non cerchiamo di quietare la nostra coscienza se non siamo in grado di vedere i drammi che si consumano in mezzo a noi. Quel grido lacerante ci chiede di voltarci a guardare finalmente con coraggio alla nostra vita adulta. Ci chiede di riprenderla fra le nostre mani e di purificarla, e di proporla purificata e pulsante come modello ai nostri figli. Affinché sia –come nel racconto biblico– un respiro d’amore capace di far riverberare su di loro l’immagine e la somiglianza di Dio.


luigi totaro

luigi totaro