Non era la prima volta che giocavamo a biliardo, ma era la prima volta che ci arrischiavamo a giocare lì nell'empireo, sullo stesso tavolo che vedeva esibirsi i mitici: Mede, il Cavolaio, il Moro capaci di rinquarti e pallini da quattro, parabole, filotti di calcio, o di impallarti sempre col tiro lento "a cachetta" come il Marinaretto. Al Sor Umberto che aveva una parvenza severa ed asburgica, che stava aquilinamente appollaiato sul suo trespolo dietro la cassa non dovevamo piacere molto con i capelli lunghi e la camicia "beat", si vedeva lontano un miglio che lo infastidiva la nostra richiesta di aprire il pallaio, per giocare sul prestigioso panno verde con un amico. "Giovanottino - ci chiese aspro - ma ce l'ha diciott'anni?" e si vide che era indispettitto dal nostro timidissimo annuire, indi si volse a destra verso il vecchio cameriere chiedendo se ci conoscesse. Quello gli soffiò quasi nell'orecchio: "E' il figliolo di Tardò". Parve ancora più contrariato, non aveva più scuse, qualcuno avrebbe potuto pagare anche nel caso della maggiore disgrazia: "il sette", lo sciagurato sgarro del panno del biliardo bono. Seguendo il cameriere eravamo emozionati come al primo giorno di scuola. Questa mattina ripensavamo a quella sera ed alle mille altre ore passate al Bar Roma a giocare a carte, alle infinite discussioni di politica, scienza e varia umanità, a notte fonda con il bar già chiuso ma sotto la sua provvidenziale tenda, dibattiti oceanici interrotti solo dai passaggi in calata di qualche mega-scarafaggio o furtivo topo, esemplari che però ai turisti milanesi avremmo spacciato per "aragostelle nane" o "scoiattoli di mare". Ci avevano detto che il Bar Roma, già depauperato da anni, per ragioni di mercato, della sala biliardo e di quella delle carte, chiudeva. Anche se ormai ci capitavamo solo molto raramente avevamo sentito un morsetto crudele.