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Controcopertina: il "DOSSIER RIFIUTI ELBA" di Legambiente

Scritto da : Sergio Rossi
Pubblicato in data : giovedì, 14 ottobre 2004

DOSSIER RIFIUTI ELBA Il modello dei consumi Dopo i tanti e rituali appelli, da parte di autorevoli rappresentanti politici a discutere di programmi, abbiamo deciso di aprire una riflessione sul problema della gestione dei rifiuti, tema su cui sicuramente chi vuole governare deve saper indicare con chiarezza con quali scelte e progetti si intende promuovere un’alternativa. Per farlo abbiamo chiesto ad esponenti nazionali di Legambiente una serie di contributi, che riflettessero la nostra elaborazione programmatica in materia, ma anche le esperienze che l’associazione ha sviluppato nel paese in questi anni. Partendo da questi contributi - integrati con le nostre proposte ed esperienze elbane - intendiamo aprire un confronto serio con l’insieme delle forze politiche e sociali dell’Elba. Sarebbe un grave errore, da parte dell’Ulivo – oggi teoricamente maggioritario nelle Amministrazioni Comunali elbane ed in Comunità Montana -, pensare che sul problema della gestione dei rifiuti possa bastare, per ottenere consensi, richiamare il Decreto Ronchi, senza fare i conti con le resistenze che incontrò anche durante l’esperienza del Governo di centro-sinistra. Ancora peggio sarebbe pensare che, se fossero gestite dal centro-sinistra, le soluzioni puramente impiantistiche o di “smaltimento” potrebbero funzionare e ottenere consenso popolare. L’ipotesi di affidare la gestione dei rifiuti solo a inceneritori o discariche, è, infatti, già fallito all’Elba e destinato a incontrare forti resistenze popolari, chiunque la proponga. Bisogna quindi agire, ripartendo - se si vuole uscire da questa logica del bruciare tutto o seppellire tutto - da un intervento forte sul modello di produzione e dei consumi, in altre parole sul modello di sviluppo. Per ridurre i rifiuti, raccoglierli in modo differenziato e riusarli bisogna costruire un progetto che sia capace di incidere sul concetto di crescita, superando l’idea che la “famosa” ripresa dipende solo da una ripresa dei consumi, qualunque essi siano. È necessario, insomma, mettere in campo un radicale progetto di cambiamento della società. È facile dire che non tutto è chiaro nelle proteste popolari contro gli inceneritori. Ma ciò che manca a questi movimenti è un progetto alternativo, a cui riferirsi, che però nessuno ha tentato di proporre. Nella vicenda, elbana ieri ed oggi più drammaticamente campana, non c’è solo il fallimento del centro-destra e delle sue politiche ambientali, ma anche l’incapacità del governo di centro-sinistra delle due Regioni di offrire una soluzione diversa e convincente a questo problema. A livello locale si è invece preferito subire o accettare la logica dell’emergenza e dei commissari con poteri di ordinanza invece che compiere scelte difficili ma inderogabili. Si è in definitiva persa una grande occasione per chiarire alla gente, su una questione così coinvolgente e indicatrice della qualità della vita di una società, quale era il progetto di cambiamento che il centro-sinistra intendeva perseguire. In buona sostanza, si è oscillato fra una delega totale del problema al commissario e all’intervento straordinario e un’accettazione ed esaltazione acritica delle scelte del movimento. Per uscire da questa situazione, che rischia di alimentare nel popolo astensionismo e sfiducia nella politica, è importante che la politica si misuri con il problema della gestione dei rifiuti. Ci auguriamo che questi contributi aiutino ad andare in questa direzione. ELBA: CREARE L’ECONOMIA DEI RIFIUTI PER USCIRE DALL’EMERGENZA Arcipelago, Area a rischio rifiuti La Regione Toscana ha indicato nel suo Piano di Azione Ambientale l'Arcipelago Toscano come "Area a rischio" per i rifiuti. Infatti le isole toscane hanno una scarsa o nulla raccolta differenziata ed esportano i rifiuti in continente (Giglio, Capraia, Giannutri) o utilizzano ancora discariche ormai giunte all'esaurimento come l'Elba o impianti di recupero che si sono rilevati inadeguati o malgestiti come quelli del Buraccio e l'"Ecocentro" della Pila, sempre all'Elba. Lo stesso aggiornamento del Piano dei Rifiuti della Provincia di Livorno, indica nei Comuni elbani l'anello debole dell'intero sistema di raccolta, riciclaggio e smaltimento di una provincia che, altrimenti, sarebbe perfettamente in linea con le quote fissate dal Decreto Ronchi per rifiuti e la raccolta differenziata. L'Ambito Territoriale Ottimale Il Piano provinciale dei Rifiuti è pubblicato ed è stato rivisto nel 2003 La Comunità di Ambito è insediata. il Piano industriale di Ambito è in fase di realizzazione (2003) L' autosufficienza di Ambito è al 100% I Rifiuti prodotti sono 237.000 tonnellate. Le Raccolte differenziate arrivano (2003) al 25,88% I Rifiuti procapite raggiungono i 711 kg/abitante/anno Costi annuali di gestione(2003): 49,9 milioni di euro Gestori Nell’Ato di Livorno operano quattro aziende di gestione dei rifiuti urbani: Aamps (Livorno), Rea (costa livornese ed entroterra), Asiu (Piombino, VaI di Corinzia), Esa (Isola d’Elba). Le aziende pubbliche coprono il 97% della popolazione nella fase di raccolta e il 100% nella fase di smaltimento. L’azienda pubblica dell’isola d’Elba (Esa spa) è subentrata a un soggetto privato nella gestione del sistema di impianti dell’isola. PROVINCIA DI LIVORNO / PIANO PROVINCIALE Produzione di Rifiuti Urbani (RU) e Raccolta Differenziata (RD) Comune RU totaleanno 2001t./anno RDanno 2001 t./anno % RDsu RU Capraia(1997) 379,50 33,96 9,32 Livorno 94.939,00 23.330,00 25,60 Totale area Livorno 95.318,50 23.363,96 25,53 Bibbona 4.539,08 1.073,76 24,64 Cecina 19.64,37 4.576,73 24,27 Collesalvetti 9.339,44 1.029,19 11,48 Rosignano Marittimo 26.407,87 7.259,31 28,63 Totale Area Rosignano 59.926,75 13.938,98 24,23 Campiglia Marittima 7.533,92 999,39 13,82 Castagneto Carducci 8.783,08 2.442,25 28,96 Piombino 22.355,49 6.021,03 28,06 San Vincenzo 7.822,03 1.629,64 21,70 Sassetta (1998) 227,86 0,30 0,14 Suvereto 1.522,40 167,58 11,47 Totale Area Piombino 48.244,78 11.260,19 24,31 Campo nell'Elba 4.732,81 617,81 13,60 Capoliveri 4.363,82 6,81 0,16 Marciana 2.741,31 60,75 2,31 Marciana Marina (2000) 1.880,46 35,90 1,99 Porto Azzurro 3.038,20 101,47 3,48 Portoferraio (2000) 10.508,91 1.088,75 10,79 Rio nell'Elba (2000) 747,47 25,58 3,56 Rio Marina 1.962,20 55,29 2,94 Totale Area Isola d'Elba 29.976,17 1.992,35 6,92 Totale Provincia Livorno 233.466,19 50.555,48 22,5566 Primo: ridurre alla fonte Tra il 1996 e il 2002 la produzione di rifiuti urbani in Italia è aumentata di 4 milioni di tonnellate. La produzione di rifiuti urbani corre ancora più veloce della crescita dei consumi e del reddito: l’intensità di rifiuto per unità di reddito a prezzi costanti è passata da 27,8 t. per milione di euro nel 1996 a 28,7 t. per milione di euro nel 2002. Insieme ai consumi energetici (e alla cementificazione e asfaltatura del suolo) è uno dei pochi importanti fattori di pressione ancora in crescita assoluta (ed è l’unico che ancora cresce più dei consumi e del reddito). Stabilizzarli o avviarne addirittura una progressiva contrazione costituisce una condizione per una gestione sostenibile dei rifiuti e per una pianificazione credibile. Ridurre la crescita dei rifiuti anche all’Elba è un obiettivo praticabile. La crescita dei rifiuti urbani è oggi addebitabile quasi per intero alla carta ed ai materiali plastici per i consumi usa e getta, largamente presenti, oltre che nei rifiuti domestici, anche e soprattutto nei rifiuti di origine commerciale e produttiva spesso raccolti nello stesso circuito dei rifiuti urbani. Dove i rifiuti generati da questi consumi hanno avuto un costo specifico in capo al produttore - come nel caso degli imballaggi - i consumi si sono quasi stabilizzati. Tra il 1996 e il 2003 il consumo interno di imballaggi è cresciuto del 27% (ad un tasso quasi doppio rispetto alla crescita dei rifiuti urbani), ma tra il 2000 e il 2003 la crescita si è limitata ad un +3%. carta, imballaggi, prodotti elettronici sono i flussi critici per i rifiuti urbani, ma in tutti questi campi esistono tecnologie, soluzioni di design, comportamenti d’uso che potrebbero drasticamente minimizzare consumi e rifiuti non necessari. La revisione di alcuni sistemi di imballaggio ha prodotto una riduzione di rifiuti fino al 70%. La semplice adozione di stampanti e fotocopiatrici duplex (con il fronte retro) può quasi dimezzare i consumi di carta negli uffici. Ciò che manca sono le politiche - anche di diffusione delle conoscenze e di educazione - e l’impiego di strumenti economici che inducano cittadini ed imprese all’adozione di innovazioni tecnologiche, comportamenti virtuosi e cambiamenti di mercato. Per l’Elba proponiamo Per l’Elba e le isole in generale la riduzione alla fonte appare ancora più facile, sensata e di grande impatto per l’immagine turistica positiva che ne deriverebbe immediatamente. La veloce riduzione di alcune tipologie di imballaggi e rifiuti può avvenire attraverso accordi, graduali ma certi, con il comparto economico, in primo luogo con la grande distribuzione, e con conseguenti atti deliberativi delle Amministrazioni Comunali di concerto con la Provincia di Livorno. Secondo noi occorre avviare subito: Stop ad alcune tipologie imballaggi direttamente in Continente, con divieto di importarle sull’isola; Graduale sostituzione delle bottiglia di plastica fino ad arrivare all’uso del solo vetro riciclabile (accordo già in atto con i 29 ecoalberghi che aderiscono a LEGAMBIENTE TURISMO); Basta con i sacchetti di plastica che producono un insopportabile inquinamento visivo e rappresentano un serio pericolo per cetacei, uccelli e Tartarughe marine, occorre avviare la loro sostituzione con sacchetti in materiali realmente ecologici: sacchetto riutilizzabile o biodegradabile in amido di mais, non geneticamente modificato (100% compostabile), sacchetti di carta riciclata non sbiancati con cloro, e sporte per la spesa in materiale durevole (tessuto, rete, juta, ecc.). Prossimamente LEGAMBIENTE lancerà la campagna “STOP SACCHETTI DI PLASTICA NELLE ISOLE” rivolta agli Amministratori, cittadini ed ospiti di tutte le Isole Minori Italiane, sulla base di un’analoga iniziativa realizzata in Corsica dall’Associazione “Les Amis du Vent” e che ha portato in soli due anni alla riduzione del 70% dei sacchetti di plastica in quell’isola. Secondo: differenziare si può È finito il tempo in cui differenziare serviva solo per qualche frazione del rifiuto casalingo (in genere il vetro), che era possibile avviare facilmente al riciclaggio diretto in vetreria. Oggi la differenziazione serve soprattutto per indirizzare al corretto ed economico trattamento la totalità dei rifiuti prodotti: all’ultima edizione dei ‘Comuni ricicloni’ Legambiente ha premiato ben 507 comuni italiani, che indirizzano a differenti riciclaggi tra il 50 e il 70% dei rifiuti prodotti. La quota rimanente viene poi spesso trattata e ulteriormente divisa tra stabilizzazione, recupero energetico e trasformazione in inerte per riempimenti e cementifici. Intere Regioni portano a riciclaggio più del 35% dei propri rifiuti, così come molte altre Regioni di centro Europa lo fanno per la metà dei loro scarti. Dopo la prima selezione domestica le varie frazioni vengono indirizzate a differenti e appropriati impianti di primo trattamento: compostaggio per la frazione organica, selezione per i materiali riciclabili, biostabilizzazione ed epurazione degli inquinanti per la preparazione al recupero energetico, inertizzazione e avvio a discarica per la sola frazione inerte. Scrivevamo già nel 1990: “Non c’è quindi, da parte di Legambiente, alcuna pregiudiziale contro una o l’altra tecnica di trattamento o smaltimento del rifiuto. Permane invece un no deciso ad ogni soluzione impiantistica che pretenda di trattare tutto il rifiuto urbano raccolto in maniera indifferenziata: non solo discariche e inceneritori, ma anche impianti di compostaggio e di selezione, se partono dal rifiuto tal quale, si presentano complessi, spesso diseconomici, più inquinanti e con forti difficoltà a trovare sbocchi di mercato per il prodotto del riciclo” . Barriere ideologiche applicate a principi tecnologici non hanno mai avuto fondamento. Il “porta a porta” è più efficace Ma non bisogna nascondersi alcuni dati certi dimostrati da uno studio che LEGAMBIENTE presenterà a Napoli nei prossimi giorni: A) in tutti i casi in cui la raccolta differenziata è balzato a valori elevati, questo si è realizzato solo con il servizio “porta a porta”, sostenuto da una adeguata campagna di sensibilizzazione e supportato dalla realizzazione di piccoli centri di raccolta differenziata distribuiti sul territorio. All’Elba un buon esempio viene dalla ormai sperimentata ed efficace raccolta porta a porta della carta a Marciana Marina, ma clamoroso è il dato di Venezia dove, come all’Elba, si pensava impraticabile la raccolta differenziata che, al contrario, in pochi mesi da zero ha raggiunto circa il 70% utilizzando il porta a porta. Ma se le cose stanno così bisogna investire risorse più sul porta a porta e sulle raccolte e gli stoccaggi condominiali e meno sui cassonetti e sulle cosiddette “isole ecologiche”; B) la raccolta del rifiuto umido (delle cucine) raggiunge col “porta a porta” percentuali più elevate (sino al 40%) della media nazionale e, di conseguenza, l’organizzazione della sua raccolta separata e la costruzione di impianti di compostaggio è indispensabile; C) le carenze impiantistiche, su tutte le tipologie di impianti (centri di quartiere, impianti di selezione e trasferimento, compostaggio dell’umido e anche recupero energetico), determinano alti costi di trasporto e forti tensioni e incertezze sull’organizzazione della raccolta e sui costi per i Comuni e i cittadini. Più, non meno impianti di smaltimento È quindi insensata la contrapposizione emersa ad Acerra tra un governo che pensa di bruciare tutto quello che prima finiva in discarica e una rivolta nazionale, che rifiuta qualsiasi impianto di smaltimento in quanto potenzialmente dannoso. La soluzione non è e non può essere rappresentata da pochi forni di incenerimento e discariche per i rifiuti in gran parte indifferenziati, magari presidiati giorno e notte dalla polizia. Dobbiamo però riconoscere che la raccolta differenziata precede la realizzazione di un numero di impianti decisamente più alto (in ogni Regione centinaia di centri, decine di impianti diversi, officine, fabbriche, uffici), con diverse centinaia di tecnici, commerciali, lavoratori impiegati. Altro che ‘moratoria’ degli impianti! Si è fatto un gran parlare dei 47 inceneritori italiani, censiti dall’Osservatorio nazionale dei rifiuti, capaci di trattare solo il 9% dei rifiuti nazionali (metà dei quali in Lombardia) e della necessità di costruire qualche decina di altri impianti di recupero energetico per tutta Italia. E diciamo subito che è una necessità anche per la Campania, dove perciò è necessario realizzare alcuni impianti di termovalorizzazione. Quanti, dipende dalla capacità ma prima ancora dalla volontà di raggiungere gli obiettivi prefissati di riduzione e di raccolta differenziata. Dove, è presto detto: gli impianti vanno costruiti in aree industriali, e preferibilmente vicino alle città dove si producono più rifiuti: il che significa che Acerra, per l’appunto area industriale, è tra i siti ‘candidabili’ ad ospitare un termovalorizzatore, ma non l’Elba con la sua modesta produzione e quindi il cosiddetto termovalorizzatore del Buraccio è stato frutto di un grave errore progettuale quando è stato realizzato e, dopo il decreto Ronchi, è divenuto anche un inutile sbaglio strutturale ed una costosa eredità che rischia di compromettere l’avvio di un ciclo dei rifiuti veramente efficace e virtuoso. Ma questo significa anche che l’impianto del Braccio deve essere riconvertito partendo da una capillare ed efficiente raccolta differenziata a monte, basata sul porta a porta, e non da una selezione dei rifiuti a valle. Il Braccio deve trasformarsi da problema in occasione e costituire uno degli elementi principali dell’Economia dei Rifiuti che bisogna iniziare a costruire anche all’Elba. Vale la pena di ricordare però che una quota analogamente bassa di rifiuti italiani (2,5 milioni di tonnellate di urbani, più altrettanti di origine diversa) viene trattata in 240 impianti di compostaggio di qualità, che chiudono i loro bilanci vendendo ammendante di qualità. Di simili impianti se ne dovranno costruire altri 500 nei prossimi anni e realizzarne uno davvero efficace e funzionante all’Elba e per l’Elba, anche riutilizzando ed adeguando l’impianto del Braccio alle nuove esigenze ed alle moderne tecnologie. Grazie alle raccolte dei vari materiali e imballaggi oggi sono qualche migliaio le aziende e le unità produttive coinvolte nel riciclaggio di 7 milioni di tonnellate di materiali, con un fatturato stimato in 2 miliardi di euro. Se il riciclo raddoppia, raddoppieranno realisticamente le dimensioni del settore. C’è poi qualche altro centinaio di impianti, che punta a trattare in qualche modo il rifiuto non differenziato, cercando di esaurire o tamponare la degradazione della parte putrescibile: sono le così dette ‘ecoballe’, o biostabilizzato, o nel caso più virtuoso “combustibile derivato dai rifiuti”, spesso “stoccati” in milioni di tonnellate nelle vicinanze degli impianti, in attesa della costruzione di discariche o impianti energetici che vogliano o possano bruciarli. Dai rifiuti nuovo lavoro Gli ancora pochi casi virtuosi di smaltimento dei rifiuti dimostrano che l’uscita dall’emergenza è possibile, al Nord come al Sud, solo a patto che divenga una reale opportunità di creazione di lavoro e di imprese sane. Imprese fortemente intrecciate con le esigenze del territorio, rappresentato da un lato dai Comuni e la tipologia dei rifiuti prodotti e dall’altro dalle imprese utilizzatrici dei materiali rigenerati (compost per l’agricoltura e Consorzio nazionale imballaggi). L’aumento della tassa di smaltimento dei rifiuti non deve servire a pagare prevalentemente il trasporto dei rifiuti in alcuni grandi impianti assistiti (inceneritori) o in perdita (discariche o biostabilizzatori), ma, in primo luogo, a sostenere la crescita di un nuovo comparto produttivo come quello del riciclo. La gestione sostenibile dei rifiuti - dalla minimizzazione al riciclo - significa in primo luogo rendere più sostenibili i processi di produzione e di consumo: produrre e consumare pensando di generare meno rifiuti e di reimmetterli nei cicli di lavorazione o di uso, attraverso il design, la sostituzione di materiali, l’attenta gestione dei processi di distribuzione, la modifica dei comportamenti d’uso quotidiani. Stiamo insomma cercando di creare, accanto al sistema di produzione dei beni con i suoi impianti, le sue imprese e tecnologie, un nuovo settore dell’economia, basato sul reimpiego di materie ‘seconde’: carta, vetro, metalli, ammendante agricolo, nuove plastiche, nuovi mobili, materiali da costruzione e, perché no, un po’ di energia e materiali di riempimento per ripristini ambientali e discariche. Dai rifiuti nuovi mercati La legge italiana prevede che il 30% degli acquisti delle istituzioni pubbliche (ministeri, Comuni, Comunità Montane,Parchi, caserme, scuole) e delle società pubbliche (municipalizzate, acquedotti, aziende ospedaliere) sia costituito da materiali di riciclo. Manca però la capacità di farlo (esemplari gli strumenti messi a punto dalla Provincia di Cremona), la volontà di attuare la norma e, persino, l’offerta di mercato e le forme di certificazione della provenienza dei materiali: Legambiente ha messo a punto una importante iniziativa, rivolta esclusivamente alla promozione di un mercato dei prodotti di riciclo - che abbiamo chiamato “Pubblici riacquisti” - con l’aiuto dei Consorzi di filiera (imballaggi, compost, inerti...) e dell’Osservatorio nazionale rifiuti. È evidente che la creazione di una nuova “economia dei rifiuti” è un processo complesso, spesso discontinuo, che richiede, soprattutto inizialmente, alti costi e investimenti, costruzione di esperienze, imprese, conoscenze. Non solo: questo è certamente più difficile all’Elba che per aree con un tessuto industriale forte che hanno potuto più facilmente rispondere alla crisi del vecchio sistema di smaltimento dei rifiuti, grazie anche alla presenza diffusa di operatori del recupero che vivevano degli scarti industriali (20 anni fa metà degli iscritti alle associazioni dei ‘cartacciai’ e ‘recuperatori’ avevano sede in provincia di Milano) e delle grandi industrie, che avevano bisogno di quella materia prima (le cartiere stanno da Firenze in su, i grandi riciclatori di legno sono mantovani, la lavorazione dei rottami metallici fa capo a Brescia). Insomma, a render più difficile la soluzione dell’emergenza rifiuti nel Meridione e nelle Isole, non pesa solo il controllo diretto della criminalità organizzata sul ciclo dei rifiuti, quanto piuttosto la carenza di un forte tessuto imprenditoriale, sia pubblico che privato, di una capacità amministrativa che sappia rafforzare le imprese esistenti e crearne di nuove. Insomma, anche sui rifiuti, sono i nodi strutturali dello sviluppo che vengono al pettine: ed è sul fatto che questi non vengano risolti che la criminalità organizzata fonda il suo interesse e potere. Non siamo svizzeri Qualche mese fa il Consiglio di zona di un quartiere di Como vicino al confine con la Svizzera ha evidenziato un aumento considerevole degli abbandoni di rifiuti per le strade e le piazze. Le verifiche e i controlli hanno fatto emergere una realtà sconcertante: i rifiuti domestici abbandonati venivano dal canton Ticino. Controlli campione eseguiti alla frontiera hanno bloccato alcune macchine che portavano in Italia i loro scarti. A Lugano, infatti, la produzione di rifiuti non differenziabili costa cara: l’apposito sacco messo a disposizione delle autorità viene venduto ad un franco l’uno. I proventi pagano il servizio pubblico. E siccome tutto il mondo è paese, anche gli svizzeri sono tentati ad evadere le tariffe e scaricare i rifiuti dove capita. Ma perché in Italia, visto che i comaschi ormai riciclano quanto loro? Perché non abbandonare i sacchetti in una più comoda strada o piazza di Lugano? Perché in Svizzera verrebbero segnalati, scoperti e multati, in Italia no. Ecco forse la vera differenza: il controllo del territorio, la partecipazione dei cittadini e la fiducia nelle istituzioni preposte a questo scopo. Questa la vera differenza tra i nostri paesi. Per anni ci hanno raccontato che gli Italiani (e gli Elbani) erano impreparati alla raccolta differenziata. Non era vero. Forse invece gli italiani (e gli Elbani) non pensano che sia utile avvisare i vigili quando vedono che qualcuno scarica rifiuti. Ancor meno utile segnalare ad una autorità reati ancor più gravi come un traffico di rifiuti industriali o un abuso edilizio. E come dargli torto con un condono edilizio in corso e i colpi di spugna per tutte le violazioni delle leggi ambientali concesse dal governo! E come dar torto ad un Elbano che vede cigli di strade, fossi e macchie deturpati da inerti edili e rifiuti ingombranti gettati da irresponsabili - ai quali sarebbe facilissimo risalire - e incoraggiati da esercenti che rifiutano di ritirare lavatrici, frigo ed altri rifiuti tecnologici così come imporrebbe il Decreto Ronchi? Gli effetti ambientali Tutti gli impianti generano emissioni nell’ambiente. Ma dopo venti anni di conflitti ambientali e l’introduzione di nuove normative su scala europea, oggi le tecnologie di trattamento e smaltimento dei rifiuti non sono più le stesse. Su questo fronte abbiamo vinto. Le tecnologie e le pratiche gestionali (importantissime!) hanno radicalmente modificato il potenziale impatto ambientale sia di una discarica che di un inceneritore o di un impianto di compostaggio. Questi impianti (se hanno la tecnologia adeguata e se hanno una gestione corretta, cosa che all’Elba non è fino ad oggi accaduto veramente!) hanno emissioni e provocano comunque qualche disagio, ma non sono più una importante fonte di inquinamento. Si rifletta soltanto su quanto sono cambiate in 10 anni le emissioni di un impianto di incenerimento: Il carico aggiuntivo da questi impianti, in un’area mediamente antropizzata, generalmente non supera l’1-2% delle emissioni per nessun parametro. In termini di impatto aggiuntivo per le concentrazioni al suolo - quelle che si respirano - gli incrementi possono essere molto modesti o irrilevanti. Una recente stima di impatto sanitario effettuata per l’area fiorentina ha mostrato per inquinanti critici come il cadmio e il mercurio una concentrazione aggiuntiva che nel punto massimo era inferiore di 5 ordini di grandezza (10.000 volte più piccola) rispetto ai valori-limite per l’esposizione negli ambienti di lavoro. Anche per le diossine, le ricadute determineranno sull’area vasta incrementi dell’esposizione nell’ordine dello 0,25-0,5 %: e anche nei punti di massima ricaduta le concentrazioni resterebbero ben al di sotto di quelle registrate in aree rurali. Analogamente, anche per gli impianti di compostaggio si sono introdotte tecnologie di processo e di trattamento degli effluenti che hanno drasticamente minimizzato gli impatti ambientali. Persino le discariche, a parte l’occupazione di suolo, possono oggi essere gestite con bassissimi impatti: lo smaltimento finale solo di flussi di rifiuti stabilizzati (secondo corrette tecniche di “end-composting” e non furbesche tecniche di “eco-balle”) riduce drasticamente non solo i cattivi odori, ma anche le emissioni di biogas e la formazione di percolati inquinanti. Riconoscere questi dati di fatto non significa sposare le politiche e gli interessi di chi vuole bruciare tutto. Significa affrontare razionalmente la realtà. Compensazioni sì, ma ambientali Si assiste sui giornali all’incensamento di sindaci che, ospitando discariche e inceneritori, sono riusciti a ridurre i costi dei servizi resi ai cittadini, dimezzare o persino annullare l’ici. E’ la tentazione compensatoria che si ritrova in alcune dichiarazioni delle Giunte di Campo nell’Elba e Porto Azzurro che ospitano l’impianto del Buraccio e la discarica di Literno. Non è un atteggiamento né nuovo né virtuoso. Da sempre industrie inquinanti e infrastrutture invasive hanno ripagato i comuni ospitanti con piscine, asili o campi di calcio. L’ambiente, si sa, è una risorsa che si può svendere con scarsa lungimiranza. Più interessante invece parlare di compensazioni ambientali. Se l’emissione zero dell’impianto non può esistere si può e si deve cercare di ottenere compensazioni che producano - nell’area interessata- un effetto ”emissione zero” e possibilmente un miglioramento della qualità ambientale. Non si tratta di monetizzare il rischio, di compensare un danno o disagio solo con una Ici più bassa o la riduzione delle tariffe elettriche. La compensazione ambientale è invece l’eliminazione del danno, l’azzeramento delle emissioni che gravano su una certa area territoriale intervenendo sull’insieme dei fattori di inquinamento. Questo approccio è praticabile - e comporta costi assolutamente sopportabili - non solo attraverso il recupero di energia dagli impianti, ma anche attraverso interventi collaterali - non direttamente legati agli impianti -, che migliorano la qualità ambientale: interventi di riqualificazione edilizia (isolamento termico ed acustico), impiego di fonti rinnovabili e sostituzione di caldaie inefficienti (in molte aree il teleriscaldamento non ha senso), potenziamento del trasporto pubblico, bonifica di aree inquinate, interventi su sorgenti industriali, costruzione di spazi verdi, ecc. Questi interventi da un lato riducono emissioni o fattori di danno ambientale esistenti nell’area interessata dall’impianto, dall’altro migliorano la qualità urbana e della vita localmente. E il potenziale di riduzione dell’inquinamento locale ottenibile con questi interventi è generalmente ben superiore alle ricadute locali delle emissioni degli impianti. Il maggior costo derivante dalle compensazioni ambientali è, d’altra parte, equo socialmente. Come avviene anche con altre infrastrutture di uso collettivo, la realizzazione di un impianto di smaltimento dei rifiuti inevitabilmente concentra gli impatti ambientali (più o meno grandi che siano) su un’area ristretta e su una popolazione limitata rispetto all’area e alla popolazione ben più ampia che serve. Agevolazioni perverse È noto che il mercato da solo non sappia regolarsi, specie nel caso dei rifiuti, il cui valore, per chi se ne vuole liberare, è evidentemente pressoché nullo. Per spingere le imprese verso forme di smaltimento controllato, attento all’ambiente, recuperando energia e soprattutto nuovi materiali, oltre agli obblighi e ai controlli è giusto far leva anche su tasse e incentivi. E giusto quindi tassare la discarica e incentivare il recupero energetico. Ma ancor più si dovrebbe sostenere il riciclaggio materiale. Il sistema attuale tassa la discarica (ancora molto poco), favorisce enormemente l’incenerimento con la triplicazione del prezzo del chilowattora elettrico, favorisce poco il riciclaggio — attribuendo parzialmente il costo delle raccolte differenziate al C0NAI —, non favorisce per nulla il compostaggio come tecnologia ottimale per il trattamento della frazione organica, la lotta all’impoverimento del suolo agricolo italiano e la costituzione di serbatoi di carbonio utili al controllo dei gas climalteranti. È inoltre assurdo che le agevolazioni all’incenerimento gravino impropriamente sulla bolletta elettrica e siano parificate in tutto e per tutto alle migliori energie rinnovabili. Sarebbe necessario un ripensamento generale degli strumenti economici di governo del mercato dei rifiuti, in modo da eliminare strumenti distorsivi e favorire le soluzioni ambientalmente ed economicamente più corrette. Insomma, il mercato da solo è insufficiente ad indirizzarci verso la sostenibilità vera, ma le politiche pubbliche, anche e soprattutto del nostro governo, fanno talvolta di tutto per indirizzarlo dalla parte sbagliata. UN PROBLEMA DI GOVERNO I tema della gestione dei rifiuti, o se si vuole essere più realistici del loro smaltimento, è di quelli particolarmente caldi, su cui si misura la capacità di governo di una classe dirigente. Lo è, sia che si parli di quelli di cui ognuno di noi, in varia misura, è quotidianamente produttore, sia che si tratti di scorie che mai avremmo voluto fossero generate, come ad esempio quelle che ci sono rimaste in eredità dalle centrali nucleari, chiuse da oltre quindici anni. Per comprendere la dimensione del problema e le grandi difficoltà (di consenso sociale in particolare) che ci sono per risolverlo, basta ricordare che la produzione dei rifiuti continua inesorabilmente a crescere più del Pii, e mantiene un incremento medio su base annua di due punti. Inoltre, sulla capacità o meno di risolvere questo problema, si misura la qualità della vita di un paese, il suo modo di consumare e di produrre, insomma la sua capacità di costruirsi un futuro. Sarà dunque uno dei temi decisivi su cui sfidare Berlusconi e il governo di centro-destra, che anche su questo terreno ha ampiamente fallito, come dimostrano le numerose rivolte popolari che caratterizzano ogni localizzazione di discariche e di impianti di incenerimento. Le radici delle infuocate proteste che si sono registrate nel novembre scorso a Scanzano Jonico e in Campania negli ultimi mesi (in occasione della riapertura della discarica di Montecorvino Pugliano e della costruzione dell’inceneritore di Acerra) sono, infatti, assai simili. L’elemento che le accomuna è la denuncia di un approccio sbagliato verso la gestione dei rifiuti, che ha caratterizzato per decenni il nostro paese, in maniera più o meno diffusa tra le varie Regioni. Ovvero il ricorso allo smaltimento finale in discarica come unica via di gestione, senza quindi promuovere serie politiche di prevenzione come l’utilizzo delle raccolte differenziate. Riduzione, raccolta differenziata e riuso, le tre famose ‘R’ che caratterizzano una politica di prevenzione e che dovrebbero precedere qualsiasi ipotesi di smaltimento, sono state troppo spesso una pura indicazione di carattere simbolico. O, altrimenti, sono state praticate per ricevere incentivi fantasmagorici - ma spesso, per la verità, assai sporadici -, che sono stati promossi più per l’alto costo di smaltimento in discarica che per scelte politiche lungimiranti. Nasce da qui, da questa impostazione sbagliata, il rifiuto che si manifesta in gran parte della popolazione, e in tante situazioni diverse. Eppure, con l’approvazione del decreto Ronchi durante il governo di centro-sinistra, si erano create molte speranze, poi rapidamente svanite. Quella riforma provò, infatti, a scardinare questa mentalità consolidata e diffusa, che considera il problema dei rifiuti solo un problema di smaltimento, portando così il nostro paese in linea con i paesi del Nord Europa. Ma questo percorso purtroppo ha trovato nel suo procedere grandi ostacoli, dovendo fare i conti con un’arretratezza culturale assai diffusa, con una pubblica amministrazione che ha sempre osteggiato le scelte più innovative e strategiche - come ad esempio il passaggio della vecchia tassa sui rifiuti a un vero e proprio sistema di pagamento a tariffa -, ed infine con un settore industriale poco preparato ad affrontare una innovazione di tale portata. Certamente, nonostante le resistenze incontrate, la riforma avviata aprì comunque un solco difficilmente colmabile, soprattutto a livello culturale, che contagiò positivamente quasi tutti i settori coinvolti e portò anche a qualche parziale risultato. Che non è bastato però ad impedire che l’attuale governo azzerasse le innovazioni e i timidi passi avanti. Il risultato è davanti agli occhi di tutti ed è testimoniato dal vero e proprio incancrenirsi della crisi dei rifiuti nel Mezzogiorno, nel quale quasi tutte le Regioni sono commissariate, per ciò che riguarda la loro gestione. L’impostazione dell’attuale governo è stata subito piuttosto chiara ed era - per dirla con le parole del capo di gabinetto del ministero dell’Ambiente, Togni - quella di «mandare in soffitta il decreto Ronchi». Ciò ha determinato, sin dall’inizio della legislatura, un quadro di provvedimenti molto nebuloso, fatto di iniziative legislative ad hoc per favorire alcune categorie (ad esempio, le nuove norme sui rottami ferrosi o sui rifiuti petroliferi di Gela), di semplificazioni delle procedure di autorizzazione, che hanno premiano solo i meno virtuosi, e di annunci di controriforme. Questi hanno preso maggior consistenza con l’avvio dell’iter parlamentare della Legge delega di riordino della normativa ambientale, che ha rimbalzato più volte tra Camera e Senato e che - anche se dovesse riuscire a essere approvata - non avrà, fortunatamente, più i tempi tecnici per poter essere pienamente operativa. Le indicazioni contenute nella tanto ostentata controriforma possono essere riassunte sinteticamente in questo concetto chiave: anziché perdere tempo a studiare sistemi funzionali ed efficienti di raccolte differenziate, per poi recuperare il materiale di risulta e favorire quindi un sistema industriale che ha finalmente dimostrato di essere capace di innovazione, il grosso dello sforzo deve essere concentrato nella ricerca di siti idonei alla costruzione di forni dove incenerire - di fatto - quello che adesso va in discarica. L’obiettivo dichiarato del ministero dell’Ambiente era quello di costruire un inceneritore per ogni Provincia: senza, perciò, alcuna logica di programmazione e di pianificazione sul territorio. Questi orientamenti hanno innescato un diffuso senso di confusione in un settore quale quello dei rifiuti, dove ad atteggiamenti di forte dinamismo positivo si coniugano immobilismi gattopardeschi. Situazione che non ha certo impedito agli amministratori dotati di spiccato senso civico - tanti per fortuna - e che hanno scommesso sin dall’inizio sulla gestione integrata dei rifiuti di continuare ad operare nella giusta direzione, ponendosi e raggiungendo anche obiettivi ambiziosi con politiche basate sulla trasparenza delle azioni, sul coinvolgimento dei cittadini nelle scelte e su strategie ormai consolidate in modo diffuso in Europa. Così è avvenuto in gran parte delle Regioni del Nord, del Centro e in qualche realtà anche al Sud, dove alla logica dello smaltimento si è anteposto un circuito di riciclaggio e di recupero della gran parte dei rifiuti prodotti, reso possibile da un efficiente sistema di raccolta differenziata e da una costante opera di informazione dei cittadini. Ma la volontà espressa a gran voce, da parte di questo governo, di privilegiare la parte del recupero energetico rispetto alle altre ha offerto alibi a chi non ha mai abbandonato la logica dello smaltimento come gestione, con la variante che oggi si vuole passare dalla filosofia del ‘tutto in discarica’ a quella del ‘tutto all’incenerimento’, o - come molti la chiamano - alla termovalorizzazione. Anche su questo punto è necessario fare chiarezza: il fatto che gli impianti di incenerimento debbano giustamente operare in maniera obbligatoria il recupero energetico, non ne cambia la natura originaria di inceneritori di rifiuti. Lo ha ribadito anche la Corte di giustizia europea il 13 febbraio dello scorso anno, quando con due sentenze ha messo fine ad una querelle tra due Stati membri, e ha ribadito che l’incenerimento è a tutti gli effetti una operazione di smaltimento di rifiuti e come tale - insieme alla discarica - si colloca all’ultimo scalino della scala gerarchica nella loro gestione. L’ultimo gradino appunto: e non l’unico. Solo il ristabilimento di queste gerarchie nella gestione dei rifiuti, una diffusa ricerca del consenso e la trasparenza nelle decisioni può far capire e forse accettare ai cittadini di Acerra (ma la stessa cosa si può dire per tante città meridionali) che per quello che resta dei rifiuti - dopo la riduzione della quantità di rifiuti prodotti, una raccolta differenziata efficace e controllata e dopo il riuso - qualche inceneritore con capacità di recupero di energia (che sia dotato della migliore tecnologia, sia dimensionato sulla base delle esigenze di bacini omogenei di utenza e venga collocato in un’area industriale) va fatto. Per la realizzazione di questo Dossier sono stati utilizzati i dati contenuti nel Dossier Rifiuti pubblicato dalla Rivista del Manifesto, in particolare l’introduzione di Massimo Serafini e gli articoli “USCIRE DALL’EMERGENZA”, di Andrea Poggio e Duccio Bianchi della segreteria nazionale di Legambiente e “UN PROBLEMA DI GOVERNO” , di Lucia Venturi responsabile comitato scientifico di LEGAMBIENTE Le integrazioni sono a cura del Circolo LEGAMBIENTE Arcipelago Toscano


Literno discarica

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