A fronte delle polemiche di questi giorni ci è venuta un’idea risolutiva, che va bene in generale ma che oggi potrebbe farci uscire da un vicolo cieco: invece di fare finta di dare uno stipendio a un qualsiasi benemerito di una qualsiasi società (famiglia, gruppo, clan, cosca, lobby, partito, area, ecc.) affidandogli una carica pubblica, si potrebbe dare al medesimo una somma equivalente lasciandolo a casa o dove vuole, e nominare alla carica pubblica uno vero, competente, fornito di solido curricolo, capace ed efficiente. Costerebbe una trentina di migliaia di euro in più, ma l’ente cui era destinato funzionerebbe, e questo compenserebbe ad abbondanza la maggiore spesa fatta. In pratica si tratta di questo: si fa un elenco di quelli da sistemare, rigoroso, di manica stretta, limato ai casi indispensabili; si stabilisce un tetto di risorse da destinare come a una sorta di assicurazione per i danni che deriverebbero dal collocare persone senza arte e parte specifica in posti che prevedano adeguata competenza. Si divide la somma stanziata per il numero dei bisognosi e meritevoli individuati, e il gioco e fatto. L’individuazione è affidata a una Commissione, che valuta anche l’ammontare delle elargizioni, secondo criteri certi che abbiano riguardo ai meriti e ai bisogni; si stila una graduatoria che si apre a ogni tornata elettorale; e si può invece da subito indicare i candidati veri (dalle liste elettorali a quelle per gli incarichi fiduciari) senza girare intorno al problema delle persone da ‘sistemare’. A sostenerci in questa proposta viene la nostra antica tradizione giuridica italica: in latino le cariche pubbliche si indicavano come “honores”, e comportavano degli “onera” (cioè dei “pesi”, che ritroviamo anche nelle parole “carica” e “incarico”); e ovviamente si offrivano a chi era in grado di svolgere gli ‘honores’ sobbarcandosi agli ‘onera’. Nelle corti dei monarchi o in quella del papa si usava il termine “dignitas”, (cioè dignità, da cui “dignitario”), per indicare in qualche modo il fondamento (la dignità, appunto) della nomina. Agli amici, invece, i ‘sovrani’ attribuivano delle “pensioni”, per manifestargli simpatia o gratitudine, ma appunto in un rapporto personale. Insomma: ‘incarichi’, ‘onori’, ‘oneri’ conferiamoli a chi li può portare con ‘dignità’, perché possiede una professionalità corrispondente. Agli altri diamo delle ‘pensioni’: ci costerà sempre meno che tenerli a far danno in qualche ente che invece deve funzionare. P. S. (No! La polizia non c’entra). Caro dott. Fratini, apprezziamo il suo rifiuto ad accettare veti, soprattutto quando si manifesta un accanimento nei confronti di persone singole. Ci spiega perché, tuttavia, sussiste un parallelo accanimento da parte del suo partito a proporre sempre le stesse persone singole? E ancora: ci conforta che lei ritenga le candidature avanzate dal suo partito come adeguate. Lo può spiegare a tutti? Così tutti si daranno pace. La Primula Russa (noi no) Illuminante Primula Chiosarla è sempre un piacere intenso, ci consenta quindi solo di proseguire a ritroso, non già opponendoci, semmai completando, il suo excursus storico, facendo riferimento a come in un'altra civiltà, quella greca, si affrontavano e risolvevano gli stessi problemi. Come il Vicepresidente sarà in grado di ricordarle, fu proprio in quella culla della Democrazia che fu l'Atene di Pericle, nel quinto secolo A.C., che venne istituita la "Mistoforia", una sorta di indennità di carica, pensata perchè anche il cittadino più umile potesse occuparsi della cura della cosa pubblica, poichè la Mistoforia compensava il mancato guadagno dell'artigiano o commerciante temporaneamente sottratto alla cura dei suoi negozi. E l'Assessore che ha grande dimistichezza con l'opera di uno storico come Francesco De Sanctis, potrebbe ricordarle che a proposito della Mistoforia il medesimo studioso ebbe a scrivere ".. cosicchè i benestanti cessarono di essere l'elemento predominante delle magistrature". Da quanto sopra esposto però è facile evincere che il compenso mistoforico non era pensato tanto come un salario quanto appunto come una reintegrazione del guadagno perso. Sottilizzando si potrebbe quindi ipotizzare che le attuali indennità di carica, che sono standardizzate, non sono paradossalmente né giuste né democratiche, poichè in taluni casi risulteranno più alte dei mancati guadagni, in taluni casi inferiori. Giusto, a nostro avviso, sarebbe invece corrispondere a ciascun eletto una indennità esattamente corrispondente agli emolumenti normalmente percepiti (o guadagni realizzati), talchè ancor di più si realizzasse che il ricoprire una carica pubblica è un servizio e non un lavoro. Se ciò fosse applicato, cara Primula a chi guadagna molto sarebbe corrisposto molto e via via a scendere fino a chi non ha una vera attività (fattispecie se per scelta di vita) che potrebbe godere di misure equivalenti alla indennità di disoccupazione. Ciò condurrebbe forse a ridurre il numero degli aspiranti amministratori, facilitandone assai la selezione, ed a considerare il concorso a cariche pubbliche, diversamente dall'iscrizione ad una sorta di ufficio di supercollocamento.
Marco Tullio Cicerone
Pericle