La prima volta che accadde ci toccò spigere con le punte dei piedi per risultare sufficientemente alti per vederla, oltre la linea del davanzale, quella nave strana che sembrava una delle immagini che, rare allora, guarnivano i libri di storia. E continuò ad arrivare qui qusi ogni anno, immutata nella sua vetustà, mentre era la città di cosimo a cambiare a colorarsi di diversi accenti d'intonaco e d'infissi, a risanare ed otturare le carie che le avevano lasciato le bombe di una guerra sempre più lontana. Piano piano divennero quasi nostri coetanei i ragazzi che avevamo visto tante volte arrampicati come macachi sopra i pennoni a lavorare di piedi e di braccia per calare le vele, per fornire un anacronistico motore a vento a quella grande nave bianca e nera. E poi ritornava anni dopo, mentre eravamo presi da mille cose diverse, quando appena appena avevamo il tempo per darle un'occhiata alla maestosa nave vestita, che comunque era entrata perfino nel nostro parlare. Quando una delle nostre coetanee eccedeva nell'adornarsi il corpo di stoffe dal taglio non proprio lineare c'erà sempre chi gli diceva a presa di culo: "Mi pari la Vespucci". Ed ancora, mentre cambiavano le nostre case che si riempivano di costumi, oggetti e musiche diverse, lei tornava ad apparire, come per fare il conto di quelli che le stagioni si erano portati via, e dei nuovi occhietti che si posavano sulle punte degli altissimi alberi come gabbiani sulla alta poppa dorata, imponente come un culo di florida sposa. Il miracolo di S.Gennaro rovesciato in salsa locale si è ripetuto anche quest'anno, e nell'acqua della rada si è solidificata la grande nave simbolo del tempo del mare difficile, del mare da lavorare con meno tecnologia e più anima, meno smania consumistica e più tempo per pensare quanto è sterminato il mare. Dobbiamo portarci Matteo a vedere la Vespucci, ha tre anni, probabilmente non si dimenticherà mai più di questa vecchia, splendida, unica nave.
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