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Controcopertina: Il giorno della memoria del Signor Uberto di Capoliveri

Scritto da : Elena Maestrini
Pubblicato in data : lunedì, 27 gennaio 2003

"Sono stato fatto prigioniero in Grecia, e mi hanno deportato a Berlino nei campi di lavoro” Il Signor Uberto Cardenti di Capoliveri, nel giorno della memoria, con la sua voce ferma ma esile, consunta dal calare di molte lune, tiene in serbo i suoi ricordi, per ripeterli a chi non si immagina cosa sia l’inferno della prigionia di guerra. Nel drammatico capitolo del Secondo Conflitto Mondiale, in mezzo ai racconti sconvolgenti dei sopravvissuti alle deportazione nei lager tedeschi, e insieme alla Resistenza accanita e disperata dei Partigiani contro le truppe dell’ esercito nazista, ci sono angoli di storia meno conosciuti, dove ugualmente cittadini italiani hanno reso il loro personale servizio alla causa della liberazione. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 i soldati dell’esercito italiano, catalogati dai nazisti come spregevoli traditori, furono fatti prigionieri e tradotti nei campi di lavoro delle fabbriche belliche nei territori occupati dai tedeschi. A loro fu fatta una proposta: la liberazione dal campo se avessero accettato di combattere nelle file dell’Esercito della Repubblica Sociale di Salò. “Ero militare nel Peloponneso quando arrivò la notizia dell’armistizio. I tedeschi ci prelevarono immediatamente e attraverso un viaggio infernale di 4 giorni arrivammo a Berlino. Qui avvenne lo smistamento, arrivavano i proprietari delle fabbriche richedendo la forza lavoro di cui necessitavano e noi venivamo assegnati ai vari cantieri. Io rimasi a Berlino, in una fabbrica in cui dovevamo lavorare 12 ore di seguito, di giorno o di notte. Mangiavamo pochissimo, da cani. Andavamo al gabinetto una volta a settimana, vista la scarsa alimentazione. Gli operai – ricorda il Signor Uberto – erano quasi gentili con noi, riconoscevano la nostra situazione e ci erano quasi grati per il lavoro che svolgevamo. Ma c’erano i cani da guardia, gli aguzzini nazisti che ci tormentavano e umiliavano in continuazione. Abbiamo subito 270 bombardamenti aerei, eravamo un bersaglio, ogni volta le bombe cadevano vicinissime ai nostri accampamenti, eravamo sbalzati dallo spostamento d’aria, ma siamo stati risparmiati. In una fabbrica vicina morirono 52 prigionieri. Vivevo con il corpo, che si stava assottigliando sempre di più, in quel campo d’inferno, ma con la mente nel mio paese. Riuscii ad avere la notizia dello sbarco dei Senegalesi a Marina di Campo, vidi su un giornale rimediato da un compagno il nome ripetuto di Capoliveri, pensai fosse stato distrutto dopo lo sbarco, non sapevo niente della mia famiglia.” La voce diventa più bassa, sembra quasi una confessione fatta con il pudore di chi non si sente un eroe: “Un giorno, durante un attacco aereo fu distrutto un palazzo civile, tra le macerie arrivavano lamenti. Il nostro caposquadra aveva un martello demolitore, ma nessuno sapeva usarlo per fare un varco, allora pensai che là sotto c’erano persone in pericolo, non pensai al loro paese d’appartenenza, presi il martello che, viste le mie forze al lumicino, mi sembrò pesantissimo, e riuscii a tirarci fuori diverse persone. Il Comandante mi ricompensò con una sigaretta. Non fumavo, ma la potevo scambiare con un pezzo di pane. Ci chiesero subito, appena arrivati, - prosegue il Signor Uberto – se volevamo andare a combattere per la Repubblica di Salò, in cambio della liberazione. Non accettammo, non accettai neanche quando dagli 82 chili che ero mi ritrovai a pesarne 48, con la divisa e gli stivali. Un giorno il Sergente ci convocò e ci disse chiaramente che potevamo andare a combattere nelle file dell’esercito fascista, che stava a noi decidere. Ma aggiunse anche: chi oltrepasserà quel cancello avrà tutto il mio personale disprezzo. Nessuno si mosse. Ci liberarono i Russi, mentre Berlino era in fiamme. Quando tornai a Capoliveri, trovai la mia casa con il tetto nuovo, perché era stata bombardata, ma stavano tutti bene. Adesso che è finita – conclude il Signor Uberto – mi fa piacere contribuire a ricostruire un pezzo storia di quegli anni tragici”.


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