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Altre considerazioni sugli applausi dei dipendenti

Scritto da : Elena Maestrini
Pubblicato in data : sabato, 14 agosto 2004

Carissima dott.sa Maestrini, la sua riflessione profonda e lucida sugli Applausi dei dipendenti è un dono prezioso di questa mezza estate sospesa in una serie di interrogativi finalmente posti e ancora senza risposte. Perché, nella nostra società complessa, forse il passaggio necessario è comprendere che non ci troviamo davanti a tante manifestazioni di crisi, ma a una sola che in qualche modo tutte le genera: e lei ci aiuta a capirlo. L’applauso al dott. Ageno, a Nocentini, a Fratti: non è compito di nessun altro che dei giudici di stabilire responsabilità e correttezza di comportamenti. E come lei giustamente rileva a conclusione della sua nota, quella manifestazione “non era un’assoluzione di piazza, così come certastampa non era là per una esecuzione sommaria”. Ma, appunto, il problema è più generale; e, come spesso ricorda la vostra primula, non è certo elbano. Senza offesa per nessuno, pensi al nostro Presidente del Consiglio, e all’applauso di milioni persone libere da vincoli di dipendenza o di affetto, che potrebbero anche ritenersi danneggiate e che comunque non sembrano avere ragioni obiettive per sentirsi grate. Eppure per anni hanno rincorso il pifferaio, come lei dice. Pensi a Mussolini e all’Italia fascista, o a Hitler e alla Germania del mito del Terzo Reich; pensi a Stalin e all’illusione della Rivoluzione proletaria divenuta monarchia e tirannide; a Peron e all’Argentina pezzente e felice, a Bush e all’America che piace tanto alla Fallaci: tutti ben differenti uno dall’altro, e con responsabilità diversissime; ma è il consenso dei popoli nei loro confronti che ci interessa. E un altro tratto comune: a parte gli intellettuali, concordi o discordi ma comunque inermi, solo la maturazione dei popoli, la loro presa di coscienza, la loro ritrovata capacità di lettura della realtà, di formarsi una coscienza critica, ha con fatica e a prezzi altissimi permesso di neutralizzarli, rimuoverli, restituirli al giudizio della Storia. E allora, ecco il suo impegno volontario nella scuola del carcere, e alle sue motivazioni. Questo è il punto centrale della sua e della mia riflessione. “Decisi di andarci –lei dice– per un motivo semplice e utopistico, il concetto di carcere mi ha sempre fatto schifo: dovevo portare il mio granello di sabbia per contribuire a cambiarlo, a raderlo al suolo. Una sconfitta eterna della società, quella di buttare qualcuno in un altro mondo”. Cara Elena, io credo che il carcere sia molto più esteso del Forte di San Giacomo; e credo che la società (ma sarebbe meglio poter essere meno generici) abbia buttato tutti in un altro mondo: come nel Medioevo, quando nell’incertezza istituzionale seguita al crollo di Roma, molti uomini liberi si rendevano servi affidando la loro sicurezza e la loro vita a un potente (“ego sum homo tuus”, era la formula) rinunciando a essere civites –ricorda lo splendido saggio di Marc Bloch?–; così oggi, nell’incertezza seguita alla fine di ogni progetto di comunità –segnalo ai lettori il notevole libro di Bensayag e Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli)– eccoci a “una società che punisce e non previene, che guarda i barconi di esuli disperati con il telecomando in mano, e intanto olia i chiavistelli delle prigioni”. Per questo non sono d’accordo con lei (ma nemmeno lei credo lo pensi), quando dice che “forse i libri non letti non c’entrano nulla”. C’entrano, eccome! Perché se, come dice con un passaggio di straordinario respiro, “quella manifestazione un po’ grossolana ma genuina (gli applausi sul porto) era un’esplosione di istinti che fiutavano la libertà”, allora la strada è tracciata: dobbiamo lavorare tutti e di lena, ciascuno con i suoi strumenti, per fare sì che ad accorgersi dell’altro nessuno arrivi più soltanto quando ci ha sbattuto la faccia, e non ha potuto cambiare canale –con consapevolezza “miope perché la scoperta dell’”altro” finiva molto vicino a sé, dal banco del pane alla scrivania del direttore”–. Perché tutti abbiamo il nostro banco del pane e il nostro direttore, e tutti il nostro telecomando. La strada è la scuola, in questo ormai sconfinato carcere nel quale tutti siamo rinchiusi senza saperlo, perché il telecomando ci dà l’illusoria capacità di evadere, e le infinite disgrazie degli altri ci fanno sentire privilegiati e, in fondo, superiori. E’ la scuola con la capacità che crea di leggere, di comunicare, di creare collegamenti e coscienza critica. La cultura di un popolo –non quella delegata agli intellettuali– è lo scudo contro le passioni tristi, è lo strumento unico per disegnare una comunità dove non ci siano servi ma cittadini, è la capacità di costruire una società che progetti, che pre-veda e che prevenga, e non intervenga solo in un’emergenza continua a coltivare le proprie psicosi. La crisi dell’Elba –compreso il turismo– sta nella miopia, come lei la chiama; e così quella della nostra Italia e del mondo occidentale. Le armi per combatterla sono il discernimento e la volontà.


luigi totaro

luigi totaro