A partire da Cesare Sangalli nel 1998, ed il cui reportage è disponibile sul sito www.altrevoci.it, alcuni aderenti all’Isola e la Città hanno partecipato direttamente a esperienze nei campi profughi in Algeria, in particolare collaborando con l’Associazione Livornese di Solidarietà con il Popolo Saharawi. Nel corso dell’ultimo Consiglio Comunale i consiglieri dell’Isola e la Città hanno votato a favore del Patto di Amicizia con il Popolo Saharawi, consapevoli che azioni di questo tipo possano rappresentare un’opportunità per un Comune come Portoferraio, che oltre alla necessaria e inevitabile risoluzione di tutta una serie di problemi contingenti, dovrebbe guardare, in quanto porto di un’isola, anche ad una sua dimensione di città del mondo. Non soltanto del mondo occidentale quale potenziale mercato turistico, ma anche verso realtà molto più particolari, che comunque possono trasformarsi in opportunità di arricchimento sociale, politico e culturale. (n.d.r.)Il 20 agosto al Centro Culturale De Laugier alle ore 11 si celebrerà la giornata regionale per il popolo Saharawi, con interventi di amministratori locali provinciali e regionali alla quale parteciperà anche il Vescovo Mons. Giovanni Santucci. L’ISOLA E LA CITTA’ Il coraggio di vivere per la libertà Un’ inutile lotta armata prima e un‘inutile attesa di un referendum dopo. E’ questo il paradosso che caratterizza la storia Saharawi da più di trent’anni. I Saharawi, che insieme ai Tuareg costituiscono il popolo degli Uomini Blu, per secoli hanno abitato il Sahara Occidentale, protettorato spagnolo dall’ottocento e, proprio a causa del disimpegno di Madrid negli anni ’70 e la relativa cessione alla Mauritania e al Marocco, si trovano nell’assurda situazione di essere una colonia di uno stato africano dopo esserlo stati di uno europeo. Del resto è un territorio desertico ma ambito, ricchissimo di fosfati e con coste molto pescose. Il diritto all’indipendenza è sancito per la prima volta in una risoluzione ONU del 1972. Nel maggio del 1973 si costituisce il Fronte Polisario (Fronte di Liberazione di Saguiat - Al - Hamra e Rio de Oro), che nell'agosto del 1974 individua l’indipendenza come obiettivo fondamentale, da perseguire sia con la resistenza armata che con un lavoro politico fra la popolazione. Nello stesso anno, la decisione della Spagna di censire la popolazione per indire un referendum per l’autodeterminazione del popolo saharawi, scatena la violenta reazione marocchina, che si concretizzerà successivamente con una vera e propria invasione militare mascherata da Marcia Popolare. Migliaia di persone si danno alla fuga sotto i fitti bombardamenti dell’esercito e dell’aviazione di Rabat, armati da Francia e Stati Uniti. Dopo aspri combattimenti nel deserto fra due forze impari, i Saharawi vengono spinti oltre il confine algerino, nella regione di Tindouf. E’ il 1976, l’anno in cui il Polisario decide di proclamare l'indipendenza e la nascita della Repubblica Araba Saharawi Democratica (RASD). E di proteggerla con le armi ma senza mai adottare la strategia del terrore e senza causare mai stragi di civili. I Saharawi sono Uomini Blu e difendono la propria indipendenza da guerrieri, affrontando il nemico a viso aperto, sul campo di battaglia e non con metodi che avrebbero molta più eco a livello di opinione pubblica -colpisce molto di più una strage in un mercato o in una moschea, di una molotov contro un carro armato- ma non c’è onore a uccidere degli inermi. “Non puoi evitare la morte ma puoi evitare il disonore” (proverbio Saharawi). La Mauritania chiede la pace nel 1978, mentre il Marocco, forte di ingenti finanziamenti occidentali intensifica lo sforzo bellico (il vergognoso confine fortificato che divide le tendopoli algerine dal Sahara Occidentale costa al Marocco la stessa cifra che riceve dalla Comunità Europea in aiuti umanitari). Dai primi anni ottanta il Polisario avvia una capillare attività diplomatica il cui successo più clamoroso è l’ammissione della RASD all’OUA (Organizzazione dell’Unità Africana) quale stato membro nel 1982, nonostante altre risoluzioni dell’Onu, come la 690 del 1991 che indice il referendum, siano regolarmente disattese dal Marocco, con il tacito consenso di chi individua in Hassan II un possibile alleato nel mondo arabo moderato. Come se i Saharawi non esistessero e il problema fosse solo quello di chi costruisce la propria indipendenza su centinaia di vittime innocenti. Purtoppo risalgono al luglio scorso le dimissioni dell’inviato speciale dell’Onu James Baker, che dopo sette anni di inutili tentativi ha lasciato l’incarico a Alvaro de Soto, il quale nonostante le pressioni contrarie marocchine ha sostenuto che, anche a giudizio di Kofi Annan e del Consiglio di Sicurezza, il piano Baker rimane tuttora la soluzione ottimale della questione del Sahara Occidentale. Di sicuro, a distanza di trent’anni i Saharawi attendono pacificamente una soluzione politica a una assurda, triste vicenda che dura ormai da troppo tempo, troppo tempo anche per chi ha combattuto la prima guerra con il Marocco e ora comincia a diventare comprensivo verso quei giovani, nati e vissuti in esilio e che mal sopportano di non godere del diritto universale alla libertà, e che nemmeno tanto di nascosto cominciano a parlare di riprendere le armi. Nel frattempo sotto le tende i circa 200000 Saharawi, dei campi profughi di Tindouf (Algeria) hanno realizzato una delle esperienze politiche e sociali più particolari della storia moderna: la creazione di uno “stato in esilio”. Nella speranza che si possa trovare una via diplomatica per risolvere la questione e non si renda necessario tornare all’uso delle armi, l’ennesima guerra dimenticata, scoppiata non per milioni di barili di petrolio o altri interessi simili ma “solo” per la dignità di un popolo nomade che chiede di tornare ad attraversare il deserto senza che uno sbarramento di mine (anche italiane) possa impedirlo. Michele Castelvecchi Oltre il muro… Nel Sahara algerino, in una piccola porzione di deserto al confine con il Sahara Occidentale, vive un popolo dimenticato da 30 anni, in esilio forzato dal proprio ricco paese, dove sono rimasti “prigionieri” ben 200.000 loro parenti e connazionali. Oltre 400.000 Saharawi, popolo nomade di origine berbera, sopravvivono invece nei campi profughi dell’Algeria, nei cosiddetti, con triste orgoglio,“Territori Liberati”. Territori aridi e crudeli dove ai campi sono stati dati i nostalgici nomi delle città di origine (Dacla, Smara, El Ayoun, Ausserd) che rimangono al di là del muro di sabbia, pietre e filo spinato, presidiato militarmente ed opportunamente minato. Un sopruso lungo 2.600 chilometri che segna il confine con la propria terra e che marca, pesante e ignorato, l’orizzonte e il futuro di questo popolo nomade e guerriero che ora cerca solo la pace. Un confine che rende prigionieri tutti al di là e al di qua di questa folle opera umana, tutti impossibilitati al ricongiungimento familiare, impossibilitati a riprendere possesso delle proprie case, della propria terra, delle proprie originali attività. Della propria libertà. Oltre il muro vive un popolo di una civiltà assoluta che, dopo una strenua e coraggiosa, quanto inutile resistenza, ha scelto l’arma della diplomazia e della politica più autentica per far valere i propri diritti infranti contro quel confine di mattoni, sassi e carri armati, costantemente presidiato ed impossibile da valicare. I Saharawi sono un popolo ospitale ed allegro, all’interno del quale la donna ricopre un ruolo cardine sia nella società civile, che nel mondo politico e amministrativo, con incarichi dirigenziali e di rappresentanza e una percentuale di parlamentari superiore anche a quella italiana. Oltre il muro della violenza, dell’ingiustizia e dell’indifferenza quotidiana, ogni giorno avvengono azioni straordinarie, miracoli di umana natura che ti lasciano addosso un senso insieme di sollievo e di impotenza, che ti solcano l’anima e che hanno la capacità di farti interrogare, senza risposta, sul senso della propria vita, sul frutto del proprio lavoro. Oltre il muro, a Smara, un campo di 60.000 anime, esiste e sopravvive faticosamente, unico al mondo, il Centro di Riabilitazione per l’autonomia dei disabili e dei malati psichici nei campi profughi. In questo Centro di poche, piccolissime stanze, un’esigua ma energica equipe svolge ogni giorno il proprio straordinario lavoro, una missione di speranza, una scheggia di futuro sfuggita ai disegni omicidi e folli di chi perseguiva solo la morte. Oltre il vento di un complice silenzio soffia il vento del deserto, che porta con sé le voci e le risate dei bambini e gli urli di gioia delle donne in un giorno di festa, mentre un’equipe guidata da un coraggioso personaggio, un medico saharawi che ha studiato a Cuba specializzandosi in psichiatria e che per questo, e per una certa somiglianza con il più noto Fidel, è conosciuto da tutti come il Dottor Castro. Tra le mura del Centro, a circa 60 ragazzi di età compresa tra i 6 ed i 30 anni, viene insegnata la conquista dell’indipendenza quotidiana dell’individuo, attraverso la cura della propria igiene personale, la lettura e la scrittura, l’insegnamento di piccoli lavori manuali per la produzione di manufatti, da rivendere ai pochissimi ospiti di passaggio per finanziare il Centro stesso. Oltre il muro della violenza, dell’indifferenza, del sopruso, vive la speranza, che improvvisa, esplode da due occhi lucidi e sorpresi, da mani protese verso l’obiettivo, riconoscenti con un semplice bacio per una foto insieme. Grazie all’Associazione Livornese di Solidarietà con il Popolo Saharawi è stato possibile visitare scuole ed ospedali, consegnare medicinali e materiale scolastico, e conoscere personalmente il Dottor Castro, che ci ha accolti con l’entusiasmo e la serenità di chi fa molto per niente. Oltre il muro, un passo avanti all’altro sono entrata in un’oasi fatta di mattoni in sabbia, un’oasi improvvisa ed inaspettata che ha acceso la speranza, ma che mi ha trafitto il cuore. Per mano alla mia piccola e vivace Mamhuda ho visitato il campo ogni giorno, ho incrociato sguardi, stretto mani, scambiato centinaia di “ola” fino a quando il sole si perdeva all’orizzonte, dietro la sterminata distesa di baracche, dietro le tende, oltre il muro dimenticato. Oltre il muro, a 35 gradi e mentre la sabbia ci frustava e ci impediva il respiro, ho trovato un’oasi nel sorriso della dolce Mamhuda, la mia bambina adottata a distanza, celiaca, che oggi, come molti altri nei “Territori Liberati” gode ottima salute grazie solo grazie agli aiuti internazionali . Oltre il muro il vento spazza la terra e la miseria, ricopre i rifiuti e graffia il viso, porta via un addio che è solo un arrivederci.
Saharawi famiglia
Saharawi bimba
saharawi cuba