L’applauso forte e spontaneo rivolto a Tiziano Nocentini quando è uscito dal garage del traghetto, e successivamente ad Alberto Fratti mercoledì scorso, mi è risuonato in testa per molte ore, così come le fiaccole mi bruciarono per una notte intera. Portoferraio, pensai quella notte della manifestazione di piazza, aveva invertito il sentimento della legalità: si fiaccolava per un Sindaco che aveva lasciato il disastro finanziario e morale e per un imprenditore sul quale grava l’ipotesi di associazione a delinquere. Ma i cittadini che presumibilmente erano stati danneggiati da tutto questo, si scoprivano dipendenti, e accendevano ceri al padrone. La stessa cosa con l’applauso alla nave: torna il padrone buono, andiamo a dirgli quant’è bravo. Ho fatto un conto veloce ma tremendamente sprezzante: vedendo facce pulite e segnate dal lavoro, ho pensato che non avevano avuto il tempo di studiare, di leggere, di formarsi una coscienza critica che potesse trattenerli dal rincorrere il pifferaio. Io ero al di qua della barricata, indignata e forte delle mie idee. Ma questa diagnosi non mi soddisfaceva, era la commozione sincera a dirmi che c’era dell’altro, inoltre le sicurezze su di me sono sempre state molto schizofreniche. Ho ripensato ai tre anni di insegnamento volontario nel carcere di Porto Azzurro, alle mie motivazioni, valide come allora. Decisi di andarci per un motivo semplice e utopistico, il concetto di carcere mi ha sempre fatto schifo: dovevo portare il mio granello di sabbia per contribuire a cambiarlo, a raderlo al suolo. Una sconfitta eterna della società, quella di buttare qualcuno in un altro mondo. Poi la cronaca portoferraiese, gli applausi e le trombe da stadio, mi hanno messo in crisi Mi sono chiesta se il mio insegnamento in carcere non fosse addirittura un applauso più grande, una fiaccolata infinita. Non per dire bravi a coloro che hanno commesso crimini gravissimi, ma in favore del primo dei diritti naturali dell’uomo, la libertà. Ho cercato di insegnare qualche nozione di grammatica, per ribellarmi contro i muri e le grate, e contro una società che punisce e non previene, che guarda i barconi di esuli disperati con il telecomando in mano, e intanto olia i chiavistelli delle prigioni. Forse i libri non letti non c’entrano nulla, forse anche il meccanismo di sudditanza che ha fatto scattare il tifo alla nave per il ”capo" che tanto bene ha fatto ai suoi dipendenti era veramente inconsapevole, ma disinnescato da una sua pericolosità immediata. Forse quell’applauso spontaneo era il granello di sabbia contro l’assurdità della carcerazione preventiva, rivelatasi in tutta la sua drammaticità a chi, lavorando a testa china, se n’è accorto soltanto quando ci ha sbattuto la faccia, e non ha potuto cambiare canale. Allora se penso che quella manifestazione un po’ grossolana ma genuina, - miope perché la scoperta dell’”altro” finiva molto vicino a sé, dal banco del pane alla scrivania del direttore - era un’esplosione di istinti che fiutavano la libertà, mi sento un po’ riappacificata con questa isola che mi sta ruzzolando tra le dita. Forse non era un’assoluzione di piazza, così come certastampa non era là per una esecuzione sommaria.
orchidea PIANTE