Sul vostro giornale del 29. 7. 2004 viene pubblicato un articolo nel quale viene messa in risalto una serie di notizie, tutte rigorosamente negative, inerenti la situazione all’interno della Casa di Reclusione di Porto Azzurro, che se fossero reali sarebbero molto gravi. Tra l’altro si mette in risalto la chiusura della Chiesa, come ultimo episodio di una lunghissima serie di “giri di chiave” all’esistenza sottovuoto dei reclusi nel carcere elbano, quasi che si volessero limitare le possibilità di adesione dei detenuti ai riti di culto. Se si fosse ritenuto opportuno procedere ad un minimo di verifica si sarebbe facilmente accertato che la chiusura provvisoria della Chiesa è scaturita dalla necessità di monitorare alcune deficienze strutturali dell’edificio al solo fine di garantire l’incolumità dei detenuti . Infatti, successivamente ad una relazione del cappellano (13 luglio c.a.) dalla quale emergeva la necessità di interventi di riparazione di una grondaia prossima a cadere, è stato effettuato un sopralluogo tecnico (16 luglio c.a.) dal quale è emerso che oltre alle grondaie erano incrinati alcuni travetti e che alcune tegole erano “incrinate e malferme”. Per tale motivo contestualmente alla disposizione di chiusura per paventati seri motivi di incolumità si è provveduto a richiedere (19 luglio c.a.) il sopralluogo del competente Organo Tecnico al fine di determinare l’agibilità o meno del luogo di culto e gli interventi di riparazione necessari. Il sopralluogo è stato effettuato tempestivamente il giorno 28. 7. 2004 e si è attualmente in attesa della conseguente relazione che si è anche provveduto a sollecitare. Ad ogni buon fine si è prescelto per la celebrazione dei riti il locale più capiente di cui l’Istituto dispone. Si prende atto dell’attenzione dell’articolista per le attività trattamentali carcerarie e della constatazione della grave carenza di organico che affligge l’Area Trattamentale ma sorprende come invece dello sforzo enorme che i pochi operatori mettono in atto quotidianamente, sobbarcandosi carichi di lavoro e responsabilità che non competerebbero loro, si affermi con molta semplicità che “L’inefficienza dell’Area Educativa si ripercuote disastrosamente sui detenuti, ai quali è negato il percorso di rieducazione previsto dalla Costituzione Italiana.” E’ francamente sorprendente che si ignori che nel carcere di Porto Azzurro, quasi senza soluzione di continuità, dal lontano 1979 viene ampiamente applicato l’istituto del lavoro all’esterno che è provvedimento del direttore ai sensi dell’art. 21 della Legge Penitenziaria. E’ sorprendente che si rilevi quasi per inciso e come elemento di secondo piano che il carcere di Porto Azzurro (grazie anche alle attività della Cooperativa San Giacomo) è l’unico della Toscana in cui lo sforzo di creare opportunità di lavoro estranee alla logica meramente assistenziale è chiaramente visibile ad un occhio che voglia essere attento ,in attuazione della Legge Smuraglia. E’ altrettanto sorprendente che nell’articolo ci si addentri nell’analisi di fatti specifici dei quali chi scrive o chi ha riferito non può conoscere le motivazioni e che, comunque, a qualsiasi intervento regolamentare all’interno del Penitenziario venga attribuita una volontà vessatoria. Si vuole soprassedere poi sulle enfatiche e fantasiose raffigurazioni dell’articolista: il carcere reale è fortunatamente altro, altri e più alti obiettivi hanno gli uomini che per esso lavorano, dall’operatore di base al vertice, cioè quelli di intervenire per il miglioramento dell’uomo . Le regole, i controlli, gli altri interventi fanno parte di un sistema voluto dal legislatore, di un sistema che deve assicurare la sicurezza penitenziaria perché, come prescrive l’Ordinamento Penitenziario, la sicurezza è la condizione imprescindibile per l’attuazione del trattamento rieducativo del detenuto e se non c’è sicurezza non può esserci trattamento. Le regole ed i controlli sono a garanzia di tutti: dei detenuti perché i più deboli non subiscano sopraffazioni da parte dei più forti ed in generale perché imparando a rispettarli essi recuperano il rispetto delle regole sociali; di tutti i soggetti che prestano la loro opera nel carcere – operatori penitenziari, volontari e terzi- perché regole e controlli assicurano la loro sicurezza e quindi la loro serenità operativa in un contesto di per sé difficile. Dimenticare che il carcere ospita anche soggetti di elevata pericolosità sociale che hanno talvolta commesso gravi delitti, significa avere una visione artefatta della realtà perché il carcere non è un college dove si educa e basta ma un luogo nel quale si garantisce la sicurezza della collettività e si tenta di convincere l’uomo che non ha rispettato le regole sociali che è bene rispettarle perché possa essere restituito alla società “ rieducato”, ove si convinca, ove lo voglia. Dimenticare poi che l’Italia (ed il mondo) vive un periodo difficile a causa di eventi gravi di matrice criminosa e terroristica anche internazionale e che il carcere è una realtà attenzionata anche sotto tale profilo significa perdere il contatto con la realtà e non avere purtroppo una reale dimensione delle cose. A questo riguardo, semmai, un ringraziamento andrebbe rivolto alla polizia penitenziaria sulla quale grava – non senza difficoltà- l’oneroso compito di assicurare la sicurezza e di esercitare i controlli perché possano essere create le condizioni per la realizzazione degli interventi trattamentali. Altro e dunque falso è il presunto e immotivato “giro di vite” che si vorrebbe sostenere nell’articolo esponendo in tal modo di fatto e del tutto arbitrariamente uomini delle istituzioni che lavorano per lo Stato e per la comunità sociale, uomini che si sforzano di garantire sicurezza sociale e contemporaneamente di rendere possibile - pur con le limitate risorse disponibili - un percorso nuovo per l’uomo detenuto. A questo riguardo si ritiene che sarebbe poco dignitoso fare l’elenco delle persone che a Porto Azzurro fruiscono di benefici previsti dalla legge, compresi i permessi premio col supporto essenziale degli Assistenti Volontari, grazie all’attività di quell’equipe definita “che non c’è”. E’ poi sicuramente poco importante per chi lavora nel carcere mettere in risalto le numerose e innovative attività trattamentali che vengono attuate in un istituto penitenziario da anni, tra mille difficoltà, con l’impegno di pochi e le attenzioni demagogiche di molti. Se le risorse umane, materiali e finanziarie fossero maggiori gli operatori penitenziari potrebbero fare meglio, ma intanto su di loro grava l’onere maggiore e troppe volte esclusivo. Il carcere però non appartiene agli operatori ma alla comunità sociale, esso è parte integrante della società e per crescere ha bisogno della società che se crede nella finalità rieducativa dell’esecuzione penale, come gli operatori penitenziari credono, deve assumere un atteggiamento di stimolo e di costruttivo supporto verso gli operatori e non di demagogica delegittimazione che danneggia prima di tutti la popolazione detenuta e non secondariamente l’Istituzione e la stessa società civile. Un grazie comunque all’anonimo articolista per aver fornito l’occasione per una riflessione seria sul lavoro difficile e sconosciuto, se non troppo spesso misconosciuto, di chi il carcere vive ogni giorno con impegno ed abnegazione.
carcere porto azzurro