Quando mi ci mandarono credevo di impazzire. Prova a venire via da Roma, e da dove ero io a Roma, per finire in questo scoglio piatto e ingrato. Dicevano che ero un ragazzo troppo vivace, e che stare un po’ ‘in collegio’ non poteva farmi che bene. E poi, qui c’era una fiorente azienda commerciale, navi che attraccavano continuamente a fare acqua alla Botte, o che si fermavano alla fonda fuori la Scola, quando di là c’era vento. In terra un brulichio di schiavi e di mercanti a preparare rifornimenti freschi da vendere insieme all’acqua, e i servi a custodia della villa dei Pisoni all’inizio di quella che ora chiamano Cala Giovanna (ma i Pisoni non venivano mai). Insomma era una buona scuola per diventare dirigenti. Sai cosa me ne importava a me! Avevo dentro una rabbia che mia faceva scoppiare. Sapevo bene che m’avevano mandato qui per levarmi di torno, anche se non pensavo che sarebbero arrivati a farmi fuori, come poi successe. Certo mio cugino Tiberio, se fosse riuscito a prendere il posto di Augusto, si sarebbe trovato in difficoltà con me vivo, e pregustavo già i modi con cui avrei potuto tenerlo sempre sulla corda, con il partito di mio padre alle spalle. Era morto troppo presto, mio padre. Non m’aveva neanche visto nascere. Se no alla Planasia non ci finivo! Ma il suo nome a Roma contava sempre, almeno per fare paura a mio cugino. Intanto decisi di non piegarmi, o almeno di non far vedere quanto m’avevano piegato. Mi feci costruire una villa nel centro dell’isola, e dalla terrazza vedevo il mare da tutte le parti. E poi giardini, fontane, vasche (c’è un monte d’acqua su questo maledetto scoglio)… Sulla riva, dalla parte che guarda l’Ilva, feci fare un teatro, e delle sale per stare fino a tardi la sera, e pescare murene nelle peschiere circolari degradanti a mare. Una noia mortale! Ma facevo vedere che mi trovavo bene, che mi divertivo, che se loro avevano pensato di schiacciarmi avevano sbagliato. E invece m’avevano schiacciato. Di giorno andavo alla baietta lì a occidente, proprio alla punta del braccio lungo e stretto che si protende verso settentrione. Un posto splendido, anche se troppo poco fondo per farci un porto, del quale l’isola aveva un gran bisogno. C’era una fiorente fabbrica di “garum” e di porpora. Io facevo finta di interessarmene; così come quasi tutti i giorni andavo a vedere le colture e le stalle, e la fortificazione della Fonte della Botte e le altre. In realtà non me ne fregava nulla, ma mi facevo vedere. E poi in Planasia il tempo non passa mai, mai, mai. La sera, con quel centinaio di sventurati che m’ero portato dietro, e con le bimbe di corredo, ci si inciuccava ben bene, si faceva il bagno di notte (d’estate, naturalmente), si cantava con la cetra sulla spiaggia, e ci si divertiva con le donne. Poi, tardi, tutti in villa, mentre già gli schiavi uscivano per cominciare il lavoro. Io dormivo poco o nulla. Potevo ubriacarmi come un animale, sfinirmi di sesso, nuotare fino a non poterne più, ma non dormivo. Roma. L’unico pensiero era Roma, e la mia vita vera: non molto dissimile da quella che facevo qui, sia chiaro; ma a Roma. Il figlio di Marco Vipsano Agrippa, il vincitore di mille battaglie, il conquistatore delle isole, il distruttore dei pirati, il costruttore del Pantheon. Chiuso sulla Planasia. E poi l’inverno… Dalla parte della Scola non mi piaceva andare. Di là c’è Roma, e avevo deciso che non volevo tradire il pensiero fisso di aspettare l’ordine che mi avrebbe liberato. Non dovevo piegarmi. Ho odiato la Planasia con un odio feroce e costante. Come l’hanno odiata dopo di me tanti altri che hanno condiviso la mia sorte: ma io non avevo commesso nessun crimine, se non quello d’esser nato Postumo; e non mi hanno mai fatto pena quelli che hanno pagato qui i loro delitti. Io c’ero rinchiuso innocente, anzi vittima. Non avevo nulla a che vedere con loro. Odio quelli che oggi girano intorno a questa isola come cani intorno a un osso per conquistarla. Per proteggerla, dicono; per salvaguardarla. Perché la amano. Ma come si fa ad amarla la Planasia? Mai ho gioito tanto come quando i pirati arrivavano e bruciavano tutto, anche se poi a rimetterci erano altri disgraziati che sulla Planasia c’erano a cercarci da campare. Per amare Planasia, forse, bisogna morirci. Lasciatela stare: quest’isola è un cimitero. Lasciate che la natura la riconquisti e copra con la sua vitalità la morte che qui è disseminata dappertutto. Non ci venite, non c’è niente da vedere. E’ solo uno spettacolo di morte. O di finta vita, come il mio teatro, o la fattoria finta che hanno fatto per “divertire” gli altri prigionieri (quelli colpevoli, non come me) che ci sono stati rinchiusi. Non turbate il dolore di cui parla ogni pietra in quest’isola. Non ci venite solo perché poi tanto potete andarvene quando vi pare. Dite che volete conoscerla: ma per conoscere quest’isola ci si deve impazzire di rabbia, di noia, di dolore. Si devono odiare le albe e i tramonti più straordinari del mondo, i profumi, i mille animali che ci si muovono con naturale eleganza dimostrandoti la miseria della tua impotenza. Si devono odiare i colori che infiniti prende l’acqua verso la spiaggia, a Cala Giovanna. E il silenzio, e il vento, e la burrasca, e lo spettacolo provocante di una natura che fa quello che vuole, perché è LIBERA. Lo vidi arrivare. Sentivo che era lui. Non poteva che essere lui, che camminava in silenzio come un gatto per non farsi sentire. Pensava che dormissi. Ma io alla Planasia non ho mai dormito. Era vicino, ma non tanto da impedirmi di veder passare davanti agli occhi tutti e singoli i giorni che avevo passato nella mia splendida prigione. Se lui era arrivato fino a me voleva dire che il messaggero da Roma con la mia libertà non sarebbe mai più venuto. La notte era senza luna, ma luminosa come sono comunque le notti d’estate. Con un lieve movimento degli occhi vidi quasi tutta la terra dove avevo consumato i giorni della mia giovinezza e del mio esilio. Rividi tutto. Mentre lo sentivo avvicinare, gettai lo sguardo sulla mia daga: non mi ci voleva nulla, non se lo aspettava di certo, lo avrei ucciso prima che se ne accorgesse. Per restare ancora sulla Planasia, a far finta di vivere. No! Mi incantai a pregustare il rimorso di mio cugino Tiberio, di sua madre, di mezza Roma alla notizia della mia morte. Vagheggiai un funerale come un trionfo, e una gloria postuma. Postuma. Quello era il mio destino, segnato fin dalla nascita. Vagheggiai troppo. Sentii per un attimo un dolore nella schiena in alto, e poi un fiotto di sangue che mi usciva dalla bocca. Non ebbi esequie trionfali, e non vidi rimorsi e dolore a Roma. Non fui neppure sepolto. Mi gettarono nella vasca delle murene, e finii spolpato. Il mio scheletro fu interrato nel giardino della villa, accanto al mio cane preferito, senza neanche un segnale. Planasia è la mia tomba. Planasia è la tomba di migliaia di schiavi venuti a consumare qui i loro giorni. E’ la tomba di un’infinità di miserabili. E’ un monumento sepolcrale alla miseria degli uomini. Non la profanate, non la contaminate, non aggiungete ancora violenza alla violenza che già ha visto sulla sua terra ingrata. Lasciatela al suo destino. Lasciatela a chi ha sempre vinto qui: al sole, al mare, al vento, agli alberi, alle bestie. E ai suoi morti. Un po’ di rispetto, per Giove! Dall’Ade, alle Idi del mese di Giulio.
Agrippa Postumo