Secondo premio a Mehadheb Imed La colpa Appena il portone del carcere che lo aveva vomitato si richiuse, Sergio alzò gli angoli della bocca come per sorridere, poi si fermò perché cambiò idea o perché sorride solo così. Indugiò un momento cercando di leggere nella successione delle automobili che gli passavano davanti le intenzioni del mondo nei suoi riguardi, poi decise di andare a tentoni, sapendo che non poteva esistere alcun vocabolario che traducesse in parole il peso di oscure allusioni che incombono nelle cose. Accese una sigaretta e diede un lungo tiro riflettendo, mentre i suoi occhi sorvolavano, malinconici e stralunati, le strade affollate eppure piene di desolazione. Si aggirò senza meta per le vie brulicanti di gente, poi seguì una donna sola, esile e dolce. Si soffermò con lei davanti a una vetrina, la guardò di sottecchi, a lungo, pronto a innamorarsi senza rimedio se solo gli fosse stato concesso. Ma quando sentì il desiderio montare, provò vergogna e si allontanò, divorato da una voglia senza speranza, per sedersi su una panchina. In carcere, Sergio aveva conosciuto bene il vantaggio delle panchine rispetto alle persone: non danno consigli, non offrono comprensione. Ascoltano e basta, e con la loro immobilità ti aiutano a ricordare che nella vita non c’è niente che sia poi così sconvolgente. Improvvisamente placato, o meglio ripreso da un’ansia stabile e ostinata che riemerse dissolvendo le ansie contingenti e labili, Sergio osservò le baraonde unanimi che sbucavano dal profondo del sottosuolo nella libera luce. Gente indaffarata, affrettata. Ciascuno con le proprie occupazioni, ciascuno sufficiente appena a se stesso. Si torse le mani, si alzò e s’incamminò verso il suo appartamento. Prima di girare la chiave nella serratura, indugiò un momento come se sentisse che stava per scoprire qualche cosa che gli avrebbe ridato di nuovo la vita o gliela avrebbe distrutta per sempre. Poi aprì la porta ed entrò. Vi era un umido odore di muffa e la casa era permeata da un’angosciante mancanza di presenze umane. Sollevò subito le tapparelle, aprì tutte le porte e spalancò finestre. Negli ultimi raggi obliqui di sole che fluirono, danzava un pulviscolo dorato, e Sergio si guardò in giro come se cercasse resti di pensieri che aleggiavano, o parole che avevano esaurito il loro compito. Tornò a lui un pomeriggio passato con Paola, mentre si crogiolava nelle carezze del suo corpo caldo e bianco. Chiuse gli occhi, si pose le dita sulle palpebre come per tenere in sé prigioniero quel ricordo. Rivide il profilo del suo naso; i capelli che le cadevano come onde di desiderio ai lati del viso, le agili membra e il morbido seno. Poi pensò, con una fitta lancinante come i sogni del mattino, alle notti passate in carcere accarezzando il soave dolore che riversava con entusiasmo nelle poesie. Quanti anni, poi, aveva impiegato ad allontanare Paola dai suoi pensieri, a bandire dai suoi sogni ogni immagine e suono che la riguardava! Fu dopo che lei gli aveva detto che non lo poteva più aspettare, che la colpa, in fin dei conti, era solo sua. Quel giorno, un gemito rauco gli era uscito dalle labbra, poi il silenzio lo aveva fasciato in nastri di gelide ombre. Tremava per tutta la persona e aveva l’impressione che il battere dell’orologio nella sala colloqui frantumasse il tempo in atomi di agonia, ognuno troppo spaventevole per essere sostenuto. La gente che crede di capire gli aveva detto che la vita continua, che il tempo guarisce. Per insulse che siano, in queste banalità c’è qualcosa di vero e Sergio aveva sperato che l’abitudine a soffrire diventasse un’abitudine come un’altra, acquistasse il sapore del niente che in carcere gli impastava la bocca e la vita da anni. Alla fine, aveva concluso che di rado il futuro è come sembra, che il presente si esaurisce in un batter d’occhio, che il passato è una Atlantide, un’isola sprofondata nel mare che non si potrà mai più sperare di raggiungere, e aveva deciso che poteva immaginare la vita anche senza l’amore di Paola, convincendosi che nessun essere umano era degno della sua totale abnegazione. Nessun amore valeva tanto. Così, aveva passato il resto degli anni della sua detenzione regolarmente innamorato di qualcuna – per via epistolare – e , poiché le sue passioni non erano corrisposte, aveva conservato intatte le sue illusioni. La sera si addensava nella stanza. Tacitamente, coi piedi d’argento, le ombre venivano dalla strada e i colori sfiorivano stanchi sulle cose mentre Sergio tesseva pensieri a capiva che per molti anni aveva fatto ai ricordi quello che altri fanno alle fotografie: li aveva censurati. Ma non era possibile distruggerli come si distruggono le fotografie; li poteva soltanto seppellire sotto la polvere delle banalità di una vita rinchiusa. I particolari della sua relazione con Paola e della sua conclusione erano polverosi, perché li aveva sepolti molto bene in carcere, ma adesso cominciavano a farsi più chiari, i contorni si precisavano. Ricordò le risate di Paola. Erano piene di abbandono. Erano fragorose, calde, un lampo di denti bianchi e capelli sciolti e occhi pieni di lacrime. Accese una sigaretta e diede un paio di tiri, lentamente, meditabondo. Guardò la lama di luce sotto la porta d’ingresso attraverso le sottile spire di fumo azzurrino che salivano in arabeschi fantastici e la considerò con quello strano interesse per le cose comuni che cerchiamo di svegliare in noi quando cose molto più importanti ci spaventano, o quando un lacerante pensiero ci assedia a un tratto la mente e ci invita alla resa. Si abbandonò all’antica routine di domanda – risposta , stessa domanda in cui piombava il suo cervello quando la situazione prendeva una piega che proprio non si aspettava; provò di nuovo l’asprezza del dolore irrisolto mentre rimbombavano nella sua mente , come un’eco interminabile, le dure parole di Paola….”la colpa, in fin dei conti, è solo tua”. Piccole lacrime gli ferirono gli occhi, si torse le mani con disperazione, poi guardò attraverso la finestra il cielo che d’un tratto si era rabbuiato, come se avesse rinunciato all’attimo del tramonto, mettendogli addosso una tremenda inquietudine. Si gettò a corpo morto sul letto, così com’era, vestito, e rimase a guardare una fetta di luna simile ad una ferita di coltello che insanguinava il mondo. Le ore passarono anonime mentre il tempo sgorgava in onde lunghe e confuse; infine, il sonno lo colse, profondo e senza sogni. Quando la luce del mattino gli frustò gli occhi, Sergio si svegliò. Sentì la fitta familiare della solitudine, credeva ancora di trovarsi in carcere e, con gli occhi aperti, trasognato, affrontò i ricordi privi di speranza. Poi si sollevò e andò al bagno. Guardandosi nello specchio, vide una faccia che non riconobbe. Un viso pesante, stanco; la barba gli incorniciava le guance come vapore biancastro e gli occhi, socchiusi, erano simili a due lumi senza splendore in mezzo a un nido di rughe nelle quali egli aveva l’impressione che si fosse fermata della polvere. Si toccò il volto, le mani tremanti. Mosse le labbra senza emettere suono e scosse il capo rifiutando la tragica erosione degli anni. Nell’assurda logica che lavorava dentro di lui, Sergio chiuse gli occhi e poi li dischiuse con vaga speranza: per un attimo di pietà, lo specchio non lo rifletté più, ma subito dopo si riformò, fuggevole e mobile, l’immagine sinistra della sua faccia, sempre più terrea e scavata. Gli si soffocò un grido in gola, pensò all’irreparabile fuga del tempo, alla vita in carcere che inghiottì i suoi anni uno dopo l’altro, con velocità vertiginosa. Posò lo sguardo sul funebre telaio delle sue ossa che si vedeva attraverso la divisa marrone dell’amministrazione penitenziaria e i suoi respiri si fecero profondi e palpitarono nel vuoto della casa. “Non è possibile”, si disse. “Non ero vestito così quando lasciai il carcere”. Cercò di liberarsi della giacca, dei pantaloni e delle scarpe. Comprese che era impossibile e scoprì, con una vertigine stupita, che tutto ciò che lo vestiva era vivente, parte integrante del suo corpo. Un unico organismo. Allora una acuta angoscia penetrò in lui come una lama facendo rabbrividire le sue fibre, i suoi occhi si incupirono e li velò una nebbia di lacrime. Si guardò intorno con un fare intimorito, poi spalancò rapidamente la porta e fuggì dall’appartamento per quanto glielo permettevano le sue vecchie membra gracili. Cadde più volte, si lacerò le carni, ma arrestò la sua corsa solo davanti al portone del carcere e bussò. “Che cosa vuoi, Sergio?” risuonò la domanda timorosa di un agente che lo conosceva. “Voglio costituirmi”, rispose ansimante e tremante. “Hai già scontato la tua condanna”. Sergio rimase in silenzio, si sentì tanto deluso e orribili pensieri accorsero in un turbine per mostrargli una ripugnante esistenza. L’agente gli si accostò, gli batté sulle spalle e si alzarono da lui come un vapore frasi di circostanza, inutili, che Sergio non ascoltò. Il portone si chiuse. Cupe brume cariche di pioggia offuscarono la volta celeste. Polvere e nebbia mulinarono sulla strada, impedendo la vista. E Sergio, con un grido roco, cadde e rimase lì come un albero stroncato, mentre un soffio di vento faceva scivolare via il suo grido…