Ci perdonerà l’autore che volutamente non citiamo (e che è un bravo fotografo) per questo furto, e per avergli sciupato la foto di Ermanno Scardigli, nella quale però molti riusciranno ad intravedere quel signore anziano con grandi baffi e con una folta lunga capigliatura che fino a non moltissimi anni fa si arrampicava con la sua bicicletta sul falsopiano di Albereto. Aveva 91 anni Ermanno e dell’artista non aveva solo l’aspetto ma anche l’anima e il talento; era dotato di una buona voce e di una memoria eccellente ed era un fantastico deposito vivente di canzoni popolari, anarchiche in primis, ma anche quelle giocose da osteria come “Il collo dell’anatrà”, sì anatrà con l’accento, che interpretava come un consumato chansonnier recitando mimando, ammiccando, facendo lampeggiare gli occhi mobilissimi, accompagnato in quel “giro” di RE – LA –SOL della chitarra di Elbano Benassi nel suo ristorante, unico luogo delle sue esibizioni, ovviamente a cene terminate. Dopo le frittelline di farina di castagno con la ricotta, l’aleatico, il caffè, Ermanno Scardigli con le sue canzoni. Si divertiva quando registravamo i suoi gorgheggi, quando c’erano telecamere a riprenderlo, ma se gli avessimo detto che il suo “collo dell’anatrà” era un’importante testimonianza etnomusicologica, una storia sessuale piuttosto che ammiccante al sesso, mutuata dallo schema della “partida”, della ripartizione del corpo, in un figurato squartamento di sapore, gusto e certa origine medievale, se gli avessimo detto che si cantavano canzoni “parenti” della sua a Bibbiena, ma anche a Santa Maria de Iquique in Cile, a formare a formare una storia lunga 1000 anni e 10000 chilometri, un ideale coro transoceanico con lui e Caterina Bueno da questo lato gli Inti Illimani e Violeta Parra dall’altro due potevano essere le sue reazioni o “’un be’ più!” o più probabilmente il farci il ganascino urlandoci “Bello il bimbo!”. Magari se avesse trovato un vero intellettuale sarebbe stato più in soggezione, un De Simone gli avrebbe spiegato che “La mosca e mora” e “Lu rancio e la mosca” erano la stessa canzone, gli avrebbe detto che doveva essere orgoglioso, perché la sua voce stava già, e sarebbe rimasta per lunghissimi anni, in importanti archivi, a testimoniare la cultura composita, incasinata, bastarda, figlia di calafati, lavandaie, fonditori, contadine, minatori, puttane e marinai, ma profonda di quest’isola. Forse lo avrebbe portato su un vero palcoscenico quell’allora settantenne dal look “figlio dei fiori”, con quella incredibile voce capace di alternare i toni squillanti della gioia di vivere dei semplici, che sapeva di vino d’anzonaca e granfie di polpo lesso, e quelli cupi del lamento in musica di Domenico Passanante, anarchico, regicida mancato, impazzito per quei dieci anni trascorsi nella sua cella sotto il livello del mare nella torre della Linguella. Un intellettuale vero lo avrebbe convinto che “Finchè la barca va” era proprio una schifezza, e non era il caso che uno pieno di autentica arte e cultura popolare come lui si ostinasse a cantarla. Noi non ci siamo riusciti. Ciao Ermanno forse ci scorderemo il cigolio della tua vecchia bicicletta ma ci canterai sempre dentro la testa il tuo “Collo dell’anatrà”, salutaci Elbano.
Ermanno Scardigli