“Auspico un Natale di disagio. Non certo per i detenuti, ma per tutti noi che siamo fuori. E’ il disagio che ciascuno di noi dovrebbe provare davanti all’articolo 27 della Costituzione, secondo cui le pene ‘devono tendere alla rieducazione del condannato’”. E’ questo uno dei punti forti della lettera che il vicepresidente della Regione Angelo Passaleva ha inviato ai direttori delle venti Case circondariali della Toscana, e, attraverso loro, ai detenuti, agli agenti di custodia, ai volontari che operano in carcere. Il sentimento di disagio, di ‘sana inquietudine’ su cui si sofferma Passaleva non deve certo riguardare chi vive dietro le sbarre, ma chi può fare qualcosa per migliorare la condizione dei detenuti e quindi di tutti coloro che hanno responsabilità politiche e istituzionali. In questa irrituale missiva natalizia Passaleva evidenzia a chiare note anche la speranza che, in questo senso, la classe politica raccolga l’invito di papa Giovanni Paolo II che ha invocato un gesto di clemenza. (mo) L'articolo 27 della costituzione italiana così recita: "La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra." Per chi opera in carcere, soprattutto nella veste di volontario, l'articolo 27 è un compagno prezioso. E' un documento da imparare a memoria e da esibire quando qualcuno con un sincero sbigottimento chiede: "ma perché ci vai?" Ma anche l'adeguamento della legge al dettato costituzionale, che parrebbe un meccanismo scontato in un paese democratico, è stata cosa lenta e faticosa, se si pensa che fino al 1975 era in vigore il Codice Penitenziario conosciuto col nome di "Codice Rocco" datato addirittura 1931. Finalmente nel 1975 si ha la svolta che permette di accogliere i principi rieducativi sia per quanto riguarda la realizzazione della scuola, sia anche per il lavoro, visto fino ad allora soltanto come uno strumento afflittivo per il condannato. Nel 1986 la "legge Gozzini" umanizza il carcere aprendolo all'esterno, con la possibilità di usufruire dei permessi-premio per buona condotta, e con il coinvolgimento di volontari che, mediante gli articoli 17 o 78, possono operare promuovendo attività educative o ricreative all'interno, e servire da ponte, da cerniera, attraverso il detenuto e il mondo esterno. Ma questo non è ancora sufficiente, non basta portare la carità laica, cristiana, o di qualsiasi altra convinzione, per la durata di un colloquio e o di una lezione, e poi tornarsene a casa con la coscienza riallineata con una società, debole e ipocrita che, nei confronti di chi ha violato la legge, non conosce altro linguaggio che quello metallico e insopportabile dei chiavistelli. Diceva Giovanni XXIII "in ogni città c'è una bolla di dolore rappresentata dalle sue carceri", così anche a due passi da noi, all'interno della Fortezza spagnola di Porto Azzurro, c'è un'istituzione carceraria in cui, su circa 360 detenuti, 50 sono ergastolani, vale a dire con "fine pena mai", stritolati da una società che non sa dare altre risposte al di fuori di "legali" vendette, che di fronte ai peggiori crimini interviene somministrando il più efficace e feroce antidoto contro il diritto alla vita: l'azzeramento di qualsiasi possibilità di riscatto.
carcere porto azzurro