Durante l’estate 2003, 140 cittadini elbani, esasperati dalle incursioni dei cinghiali, sono arrivati al punto di chiedere alla Provincia e al Parco interventi di abbattimento nei fondi di loro proprietà. Di fronte di un fenomeno così preoccupante, il Commissario del Parco Nazionale Barbetti ha stretto un patto di ferro con i cacciatori, si è piegato alle richieste delle associazioni venatorie facendo diventare il Parco una sorta di riserva di caccia al cinghiale. Questo, non solo non ha risolto l’emergenza cinghiali, ma ha addirittura consentito ai suini selvatici di colonizzare l’area del promontorio del Monte Calamita dove, finora, i dannosi ungulati non erano mai stati presenti, una notizia certamente conosciuta a Barbetti ed al suo consulente “per la caccia” (sic) che hanno certamente un’approfondita conoscenza della zona. Con la Delibera Commissariale n. 233 del 17/10/03, i circa 350 cosiddetti operatori di selezione sono di fatto autorizzati a cacciare all’interno dell’Area Protetta dove e come meglio preferiscono, senza che sia previsto alcun tipo di controllo da parte del Corpo Forestale dello Stato, come invece prescrive la normativa vigente. Incredibilmente, non è nemmeno prevista una sistematica verifica del numero dei capi abbattuti. Ma questa mancanza di controlli crea situazioni paradossali: le mandibole dei cinghiali abbattuti, che devono essere consegnare al Parco per la stima dell’età dei capi, potrebbero addirittura provenire da cinghiali abbattuti anche al di fuori dall’area protetta e così il Parco non può avere neanche la certezza del numero di capi che sono stati abbattuti sul suo territorio. Inoltre, dagli atti del Parco si evince che, rispetto all’anno passato, i cacciatori hanno perfino ottenuto di abbassare il numero minimo di operatori che devono essere presente agli interventi obbligatori (40 invece di 50), così facendo si è ridotta di molto l’efficacia delle “cacciate” nell’Area Protetta. I dati lo dimostrano in modo clamoroso: prendendo in considerazione le prime 7 giornate di interventi del calendario del piano di abbattimenti, sono appena 58 i capi abbattuti quest’anno contro i 197 cinghiali uccisi nello stesso periodo nel 2002 . Nel frattempo Legambiente ha ricevuto segnalazioni di alcuni cittadini ed escursionisti che, loro malgrado, hanno corso il rischio di essere “impallinati” perché sono capitati nell’area di battuta senza che nessuno avesse posizionato cartelli di avvertimento o li avesse direttamente messi al corrente della pericolosità della situazione. Il 29 Novembre 2003 si conclude il calendario previsto dall’0rdinanza del Parco (n. 5 del 20/10/03) che definisce gli interventi nel mese di Novembre e stabilisce un numero minimo di 130 capi abbattuti in tale periodo. L’obiettivo che il Parco impone, come è capitato lo scorso anno, non verrà raggiunto (ad oggi sono stati abbattuti 58 capi). Pertanto, Legambiente chiede che il Commissario prenda atto del fallimento degli interventi “liberamente” gestiti dal Consorzio “D” caccia al cinghiale e si adoperi per la progettazione di un piano di prelievo “serio”, degno di un Parco Nazionale, che preveda pochi interventi con i cacciatori, ma altamente efficaci (con un minimo di 60 operatori), con verifiche dei capi abbattuti ed un puntuale controllo della regolarità dei comportamenti dei cacciatori che operano nell’Area Protetta. Inoltre, Legambiente chiede, per l’ennesima volta, che il Parco investa risorse economiche, messe a disposizione dal Ministero, in una massiccia campagna di trappolamento e di prevenzione dei sabotaggi e dei vandalismi alle trappole. Legambiente non intende permettere che comportamenti in contrasto con una gestione faunistica idonea ad un’Area Protetta divengano un esempio negativo anche per gli altri Parchi, che la legge venga ulteriormente violata consentendo una vera e propria attività di caccia libera e non controllata spacciandola per abbattimenti selettivi svolti sotto il controllo del Parco Nazionale. Se dal Parco non verranno risposte convincenti ed un mutamento di rotta che riporti la selezione del cinghiale nell’alveo delle norme previste dalle linee guida dettate dal Ministero dell’Ambiente, sarà inevitabile ricorrere alle vie legali per difendere le regole, la fauna e flora endemica dell’Isola d’Elba e l’agricoltura tradizionale.
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