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Si alza il sipario su Pirandello

Scritto da : Elena Maestrini
Pubblicato in data : giovedì, 12 dicembre 2002

Appuntamento con Pirandello venerdì 13 dicembre al Teatro dei Vigilanti. In scena Liolà con Franco Castellano, regia di Gigi Dall’Aglio. Liolà è un personaggio novellistico che si muove nell’ambito della burla. E’ un semplice e stravagante che fa innamorare di sé tutte le ragazze del Paese. La storia si intreccia con i vari personagggi: Palumbo è vecchio e non riesce ad avere figli dalla giovane moglie Mita; zia Croce che sperava di dargli sua figlia Tuzza si presta, ora che la figlia deve avere un bambino da Liolà, a fingere che il padre del nascituro sia Palumbo. Mita cacciata, ottiene la maternità, si intende, da Liolà, che già prima del matrimonio di lei l'amava. Il vecchio, contento d'aver già in casa quel che cercava, si riprende la moglie; e Liolà che aveva chiesto Tuzza pur senza amarla, ora accetta d tenersi il figlio di lei, come sempre si è tenuto gli altri frutti delle proprie avventure: ma non Tuzza. Da una lettera di Luigi Pirandello al figlio Stefano: “É, dopo il Fu Mattia Pascal, la cosa mia a cui tengo di più: forse la più fresca e viva. Già sai che si chiama Liolà. L’ho scritta in quindici giorni, quest’estate; ed è stata la mia villeggiatura. Difatti, si svolge in campagna. Mi pare d’averti già detto che il protagonista è un contadino poeta, ebbro di sole, e tutta la commedia è piena di canti e di sole. E’ così gioconda che non pare opera mia. A proposito dell’adattamento teatrale la regia Dall’Aglio osserva che: “Qualcuno a proposito della traduzione di Pirandello in lingua italiana dal suo originale Liolà siciliano, ebbe a parlare di versione improponibile ed impacciata ancor più, se possibile, da un non chiaro tentativo di toscanizzazione. P. amava questa commedia al punto di soffrire perché il pubblico non poteva seguirla con attenzione per le difficoltà di quell’unica lingua che, sola, poteva restituirne il senso totale, lo sfondo e il suono. Ne fece una traduzione letterale ad uso “libretto”. Ma dodici anni dopo e poi ancora dopo una ventina di anni, ne proponeva la versione di cui s’è detto. Aveva preso le distanze da quella materia che, diversamente dalla sua consuetudine, lo aveva coinvolto in maniera ludica e fatto partecipe dei modi e del vissuto del suo protagonista. Così tentava di recuperarne soprattutto la struttura inscrivendola in vari ordini della tradizione letteraria nazionale: la novellistica erotica della beffa, la commedia rinascimentale della burla matrimoniale, il recupero umanistico della struttura tragica e del dramma satiresco, la dimensione arcadica di un mondo agreste, il dialogare della commedia realistica. Il tutto per costruire una favola sullo scontro di due figure “mitiche” e ”comiche”: una “fallica“ e una “economica”, il demone della fecondità e la maschera del pragmatismo, mosse da un coro di donne che si unisce, si smembra, si diluisce nella chiacchiera, si alterna nell’inganno per provocare l’armageddon delle due forze che regolano la vita di quello spazio scenico. Una (quella del Figlio) lo arricchisce continuamente in modo caotico con lo stesso disordine selvatico della natura, l’altra (quella del Padre) lo possiede e lo “nomina”. Una morale pagana forse che però ritroviamo espressa senza retorica e senza enfasi dannunziana, ma anzi con pacata e divertita ironia. Ci viene proposta una sorta di mancata nascita della tragedia con un inizio dal sapore ditirambico un po’ approssimativo e casuale nell’aria dorata di un mattino “ellenico”, seguito da una sospensione (forse notturna) da commedia corale dai vaghi sapori goldoniani, e concluso da una crescente tensione da orgia vendemmiale (solo promessa) che si conclude però con il gesto tragico sostituito da un beffardo gesto simbolico. Sono aperte le interpretazioni; l’inconscio riaffiora attraverso i suoi simboli: la lama, il sangue, il dito, la bocca…(…)”


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