Imboccando la strada del Cotone molti si chiedono quale relazione possa mai avere quell’angolo di paradiso con il tessuto ricavato dalla lanuggine del Gossypium. Che, infatti, con l’antico borgo marinese non c’entra nulla. Secondo l’interpretazione scientificamente più valida il toponimo deriva dall’etrusco Cothu, forse una famiglia che più o meno 2500 anni or sono gestiva l’ area occidentale di riduzione del ferro e i relativi traffici marittimi. Ma c’è pure chi pensa che Cotone significhi ‘grossa cote’ riconducendo l’etimo alla lingua latina. La mia preferenza va alla prima ipotesi non solo perché ne ha la paternità il compianto prof. Riccardo Ambrosini, uno dei più raffinati glottologi di tutti i tempi, ma anche perché, se dovesse prevalere la seconda, mi sentirei un po’ a disagio essendo costretto a riconoscere che sono affettivamente attaccato a uno ‘scoglione’. Se dai ‘rochers’ del Cotone si volge lo sguardo verso occidente, la linea dell’orizzonte terrestre appare disegnata da un declivio montano che, partendo dal lunato Monte Giove (c. 852 m.), si china verso il Monte Catino, si distende in una lieve concavità fra le sorgenti della Madonna del Monte e il Masso dell’Aquila, e infine scoscende sul mare dopo aver formato una larga V fino all’Omo Masso. Una volta visitati quei siti uno per uno, e analizzato l’insieme, ti ritrovi con la nitida convinzione di avere di fronte uno straordinario ‘sistema’ sacrale etrusco. Checché ne pensi Mister F. il quale, riesumando una vecchissima ipotesi ormai seppellita dall’evidenza archeologica, ha affermato pochi mesi fa, in modo sorprendente, che l’Elba fu “occupata non stabilmente dagli Etruschi, ma semplicemente sfruttata per la ricchezza dei suoi giacimenti metalliferi”. Terminata questa doverosa digressione, arrampichiamoci sul Giove, che per la sua conformazione a giogo - o a spicchio di luna - richiama alla mente alture consimili venerate nell’antichità. Il monte bicorne si svelò all’archeologia sul finire degli anni Cinquanta del secolo scorso, allorché Giorgio Monaco scavò nella sella fra le due cime una fossa ellittica da lui definita a ragione “stipe votiva”. Essa era stracolma di manufatti litici e di ceramiche lisce o decorate (macine e macinelli, brocche, scodelle, coppe, tazze, tegami, bicchieri, pentole), che una comunità ‘protoetrusca’ di circa tremila anni fa lasciò lì come offerta a un dio. Ma a quale divinità erano destinati i doni? A dare una risposta concorre il sottostante Monte Catino dove, fra il 1982 e il 1988, in due antri a forma di tumulo naturale furono recuperati in parte i corredi di due sepolture etrusche (buccheri, ceramiche d’impasto, coppe a due anse, una serie di aryballoi globulari, fibule e altri oggetti di bronzo) risalenti al 600 circa a. C. e riferibili a personaggi di elevata condizione sociale. L’oronimo con ogni probabilità si riferisce a Catha (o Cath), dea lunare etrusca nominata a Pyrgi come consorte del dio sole nonché, come importante divinità di culto, perfino nel celebre fegato bronzeo di Piacenza e nell’iscrizione del sarcofago tarquiniese di Laris Pulena. Alla Madonna del Monte, sede di devozione mariana dal Medioevo ai giorni nostri, la montagna di Monte Giove/Monte Catino partorisce una sorgente che alimenta il fosso dei Pizzenni, nome di chiara matrice etrusca. Non distante, a conferma della marcata impronta lasciata dagli Etruschi nel comprensorio marcianese, compare il toponimo Pólina - segnalato da Silvestre Ferruzzi - la cui etruschicità, peraltro rafforzata dall’accento che cade sulla terz’ultima sillaba, risalta nel caratteristico suffisso -ina/ena. Le grotte, le strutture dolmeniche, i ripari rocciosi del vicino Masso dell’Aquila nascondono stupefacenti testimonianze etrusche (ceramiche dipinte prodotte a Vulci, buccheri, fibule d’argento e di bronzo) inquadrabili in epoca orientalizzante (600 a. C. o poco dopo). Non è difficile condividere la calzante immagine del prof. Giuseppe Centauro, secondo il quale l’Aquila “… è luogo dotato di intrinseca bellezza, non disgiunta da una sacralità promanata dalla vetta della montagna alla quale appartiene…”. Concludo questa breve rassegna con l’Omo Masso, la cui sommità è stata connotata per millenni da una spettacolare scultura naturale androcefala. Osservandolo da sud, da una decina di metri di distanza, l’Omo appariva come una grande testa per l’appunto molto somigliante, nella capigliatura e nel profilo, alla testa fittile trovata a Pyrgi e attribuita da molti studiosi alla dea Catha/Luna. Poi, nella notte del 17 dicembre 2004, un fulmine la colpì, abbattendola. Due grotte a igloo, situate a ridosso del Masso ora non più Omo, restituirono verso la metà degli anni Ottanta preziosi manufatti del 1000 circa a. C., fra i quali vanno ricordati tre vaghi d’ambra di tipo miceneo e un vaso decorato con un motivo ‘a sole’ incorniciato da punti impressi. Gli scavi archeologici nella suddetta dorsale del Monte Capanne, cominciati decenni fa, oggi sono pressoché al punto di partenza. Per di più l’eccezionale valenza delle sue architetture etrusche (tafoni e tor plasmati da madre natura ma adattati dalla mano dell’uomo), peculiari dell’Elba, rimane sconosciuta perfino alla maggioranza degli addetti ai lavori. Tuttavia, chi si spingesse fin d’ora a chiamare “Montagna sacra degli Etruschi” l’allineamento Monte Giove-Monte Catino-Madonna del Monte-Masso dell’Aquila-Omo Masso, luoghi che, peraltro, fungono da altrettanti marcatori dell’orizzonte terrestre, di certo non userebbe un’iperbole. Sono sicuro che sarebbe d’accordo anche Dante Simoncini, ottimo conoscitore della storia elbana e toscana.
zecchini michelangelo
Massiccio Capanne Toponimi
massiccio capanne masso Aquila