“… Sono stato in vacanza per qualche giorno ad O….. e dintorni e poi a L…….; la costa è tutta cementificata, i borghi di pescatori, come S………, invasi da orride villette, bar e pizzerie, mercati con cianfrusaglie made in china, musica a tutto volume e caos, brutture sparse a volontà, un clima costante da villaggio turistico massificato con aqua-gym e balli di gruppo. E poi tutti (non c'è politico che non lo faccia, con una litania di parole abusate e ormai prive di ogni reale significato) si riempiono la bocca immancabilmente di identità, di tradizione, di sistema, di territorio, di cultura e beni culturali da valorizzare, ma ovviamente solo per produrre un po' di turismo becero con l'illusione di sviluppare l'economia, senza che si rendano conto che stanno distruggendo l'unico vero patrimonio (comune) di queste terre.” A scrivere queste parole, al ritorno da una breve vacanza in Puglia, è stato il mio amico Giuliano Volpe, Rettore dell’Università di Foggia, anche lui archeologo. Eppure sono parole che vanno bene, o stanno per andare bene, per molte delle coste toscane e italiane. In questi giorni fa notizia San Vincenzo con le sue brutture urbanistiche ma basta vedere che cosa è successo nel passato recente a Follonica, al Puntone di Scarlino, a Punta Ala, per capire che stiamo andando nella direzione sbagliata. Nel futuro ci sono la devastazione e la cementificazione della rada di Portoferraio, tanto vagheggiata e auspicata dalla amministrazione locale. Ai guai che Volpe ha elencato ne aggiungerei uno solo: la globalizzazione gastronomica delle nostre città, dei nostri paesi, dei nostri paesaggi. L’impatto, anche olfattivo, che si avverte è sempre lo stesso, in Italia come nel mondo: pizza (globalizzata), hamburger, kebab, crèpe, hot dog. Pensateci: tutte queste cose fanno crescere colesterolo, trigliceridi e glicemia. Certo, non si può tornare al pentolone di Bacocco con la granfia di polpo infilzata nella forchetta, ci mancherebbe altro. Ma, forse, possiamo recuperare la panzanella e le friselle con il pomodoro, la palamita sott’olio, il gurguglione, le patate con la tonnina… tutte cose che non fanno male alla salute. Si dirà: ma le prime cose sono a buon mercato, le seconde costano. Vero, come è vero che le prime sono fatte con materie prime talmente scadenti (da dove provengono?) da indurre il consumatore ad una maggiore accortezza. Si potrebbero consumare le cose della seconda categoria magari in misura minore, visto che, fra l’altro, l’obesità è uno dei problemi incombenti sulla nostra società. Da un lato si fa un gran parlare di doc, docg, dop, specificità locali, filiera corta, kilometri zero, dall’altro si continuano ad aprire spacci di cibo massificato. Qui si avverte la debolezza delle istituzioni, inefficaci per le loro scarse dimensioni e per la incapacità di stabilire indirizzi, nei confronti delle grandi catene alimentari ma anche nei confronti di una domanda esuberante di cibo purchessia, disponibile ovunque e ad ogni ora del giorno e della notte, che sia tanto, che costi poco, che sia sempre lo stesso, ignorando il tempo e le stagioni, che vada bene per tutti, mediterranei, nord-europei, orientali e occidentali. E che faccia male a tutti. E allora, perché non sostenere, in maniera convinta e non solo di facciata, produttori, produzioni e mercati locali? Non credo che gli elbani siano in grado di mangiare tutti i cinghiali e tutti i mufloni che infestano boschi, macchie, vigne e orti, ma intanto si potrebbero incoraggiare, come in molti fanno, piccole manifatture di salumi, insaccati, conserve e via dicendo. La facciata di cartapesta del fast-food imperante nasconde, fra l’altro, un’immagine ancora più deprimente: l’abbandono del paesaggio agrario e il suo progressivo degradarsi a luogo di nessuno che non serve a nessuno. Io non saprei dire quali siano le capacità agronomiche di un’isola come l’Elba, se siano in grado di sostenere i 28000 residenti invernali, oppure la metà oppure il doppio. Magari sarebbe il caso di valutarle queste capacità. Immagino, però, che molte produzioni potrebbero essere riattivate con i dovuti investimenti e servire ad una utilità sociale; trasmettere, infine, un’immagine positiva all’esterno. Fra l’altro: è ormai accertato che l’abbandono delle campagne costiere contribuisce alla piaga dell’erosione. Come si vede, è tutto collegato: un orto è più utile e meno dannoso di un parcheggio. La tanto deprecata globalizzazione non si governa da sola ma con un approccio globale al luogo e al paesaggio in cui viviamo. Il paesaggio stesso è globale per definizione. Comincia, magari, con le pennellate del pittore, prosegue con la fotografia, con gli studi dei naturalisti, dei geologi, degli archeologi, degli agronomi e dei geografi, e arriva immancabilmente al concetto di bene comune, nel quale si riassumono il benessere collettivo e la salute degli individui. Sì, il discorso, alla fine, riguarda proprio la nostra salute, la salute dei cittadini. Se si sbaglia il modello di sviluppo, alla fine non si avranno degrado urbanistico, cementificazione e devastazione ambientale. Si avrà, anche, un luogo più malsano e più pregiudizievole per la salute dei cittadini.
gurguglione riese