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Ad una settimana dal terremoto referendario - Luigi Totaro

Scritto da : Sergio Rossi
Pubblicato in data : martedì, 21 giugno 2011

E’ trascorsa una settimana dal terremoto referendario, che ha superato in intensità le più ottimistiche attese. Ora tutti (compresi gli ottimisti superati, trai quali non ho difficoltà a iscrivermi) dovremmo cercare di comprendere bene il significato di quanto è accaduto. Ci vorrà un po’ di tempo, proprio perché un primo punto emergente descrive la sfasatura –se non la eterogeneità- fra l’intenzione politica dei votanti e l’intenzione delle forze politiche tradizionali. Lo dimostra l’interesse degli analisti professionisti per i “flussi”, cioè per il passaggio eventuale di elettori da uno schieramento a un altro. E’ un esercizio vecchio, non particolarmente utile e forse neanche possibile: semplicemente perché i voti espressi appartengono a una classificazione del tutto eccentrica rispetto agli schieramenti esistenti; non a caso un sondaggio praticamente contemporaneo ai risultati referendari, ma rivolto a verificare se si era determinato uno scostamento apprezzabile riguardo alle opzioni politiche tradizionali, ha confermato incredibilmente una sostanziale immobilità di consensi. Il che significa che il pronunciamento referendario non è rappresentabile secondo i criteri ordinari dell’analisi politica. L’“alterità” ora enunciata riguarda tanto i soggetti del voto, quanto gli oggetti. Cerco di chiarire. Considerando l’astensione comunque rilevantissima degli elettori rispetto alle consultazioni “politiche” (comprese le amministrative, ovviamente), sembra di poter affermare che non si è trattato tanto di spostamento di voti da un ‘campo’ all’altro, quanto di una cresciuta astensione degli elettori tradizionali e un abbandono dell’astensione da parte di tradizionali astensionisti: i votanti della tornata referendaria, insomma, appartengono a un popolo nuovo, non compreso e non comprensibile –almeno in misura significativa- negli schieramenti tradizionali. A parte la primogenitura a ragione invocata da Di Pietro nella richiesta e nella corrispondente formalizzazione della consultazione, le altre forze politiche nei due (tre) schieramenti hanno assistito e solo più tardi partecipato alla campagna elettorale, e in certo modo avendo riguardo più ai suoi risvolti sugli assetti politici che non al merito delle questioni sollevate: semplicemente perché la diversa visione della politica porta a privilegiare i rapporti di forza in ordine alla possibilità di essere maggioranza o minoranza, e corrispondentemente a porre in ombra gli aspetti programmatici e di contenuto; si chiede, per lunga tradizione, di aderire a una “forza politica” piuttosto che a un progetto politico, tanto a Destra (addirittura si chiede di aderire a una persona), quanto al Centro, quanto a Sinistra, pur con differenze rilevantissime e importanti. E lo si chiede attraverso modi di creazione del consenso (penso solo ai manifesti) che appaiono antidiluviani rispetto alla comunicazione odierna. Quel 57% dei cittadini che ha votato al Referendum ha in larga parte votato una richiesta omogenea di riappropriazione di volontà relativa a temi di specifica rilevanza ma di carattere generalissimo: la gestione dell’acqua, la gestione dell’energia, l’etica della legalità. Non tanto questioni di principio, poiché le leggi abrogate non affermavano principi, ma sostanziavano procedure che almeno in due casi favorivano scappatoie più o meno improvvisate per problematiche del Governo (l’accordo Berlusconi Sarkozy per il nucleare; il legittimo impedimento); piuttosto visioni del mondo che proponevano, dopo un lungo sonno, una innovata attenzione alla democrazia come espressione di volontà e non solo di consenso. E con una prospettiva importante, che proprio il caso dell’acqua lascia intravedere. Ci sono infatti ambiti nei quali la gestione pubblica è irrinunciabile, appunto quelli che riguardano i servizi ai cittadini. Se ho colto bene il significato del Referendum, il popolo sovrano si è espresso, com’è nella natura della consultazione, nel merito ma aprendo il dibattito su uno dei temi più spinosi del nostro tempo (e forse di tutti i tempi): il rapporto fra Stato e Mercato. Il secolo XX è stato quasi interamente percorso dall’ubriacatura degli statalismi e dalle lotte titaniche per liberarsene; ma come spesso accade, si è buttata via acqua sporca e bambino. Il nuovo totem, il Mercato, che già era stato all’origine dei totalitarismi con la crisi seguita alla Prima Guerra Mondiale e implosa nel ’29, avviluppato in una ripresa micidiale di quella stessa crisi, mostra oggi tutti i traumi e i pericoli che è capace di generare ma non di controllare. L’idea che il Privato sia più efficiente, economico, produttivo del Pubblico in ogni campo della vita associata è ormai divenuta ideologia esterna a ogni dialettica, un nuovo dogma di fede, malgrado evidentissime controprove. E per paradosso proprio i sostenitori dell’iniziativa privata negano che probabilmente la riuscita o meno di qualunque iniziativa non risiede nella sua forma, ma nella qualità individuale di chi le dà vita: e allora il problema torna a essere quello dell’efficienza dei controlli, tanto nel Pubblico come nel Privato, e non della proprietà dell’impresa, a meno che non si pensi di poter regolamentare l’efficienza con la forza ‘proprietaria’ di chi può sostituire i lavoratori attraverso la via breve del licenziamento, perché tanto non manca certo chi è in cerca di lavoro. Se quanto si osservava è sensato, un altro aspetto appare rilevabile: è cambiata proprio la base elettorale, l’appartenenza sociale e culturale di chi ha votato, la natura della democrazia. Il molti si domandavano, negli ultimi anni, se la nostra Democrazia a suffragio universale garantisse davvero esiti corrispondenti all’idea che ne era alla base, o non favorisse piuttosto il determinarsi di forme di demagogia populista. Intanto l’universalità del suffragio andava progressivamente scemando in numeri sempre più importanti di astensionismo. Ad allontanarsi erano prevalentemente i giovani, e del resto nessuna forza politica sembrava curarsi di loro: è difficile immaginare che una persona con meno di trent’anni possa avere un qualche vago interesse per il dibattito di uno dei ‘talkshow’ televisivi, un per l’altro. Si è smesso da tempo di rivolgersi a quella fascia di popolazione che è la più forte, la più potenzialmente vispa, la più potenzialmente dinamica. Quando i giovani, oltre se non contro la politica tradizionale, si sono organizzati in numeri imponenti per dire la loro sulla pace o sull’organizzazione economica mondiale, l’establishment politico ha prima subito poi avversato o cercato di aggregarsi ai fiumi di partecipanti a manifestazioni come il Social Forum e altre omogenee, in attesa che tutto si quietasse e tornasse ‘come prima’. Oggi quei giovani, molti di quei giovani, utilizzando i loro linguaggi e i loro strumenti di comunicazione, hanno dato vita al terremoto referendario, sorprendendo tutti. Chi è stato in grado di capire questo evento nuovo senza normalizzarlo, senza banalizzarlo? Chi è o sarà in grado di farlo? Chi è disposto ad ascoltare la lingua nuova della politica, a impararla? Chi è davvero disponibile per un ricambio di classe politica, per passare il testimone al compagno fresco, pronto per la sua frazione? I flussi in gioco, questa volta, non interessano il passaggio da un partito all’altro, da uno schieramento all’altro, da un’appartenenza all’altra. Riguardano il passaggio da una fascia d’età all’altra. Chi vi si adegua è con la storia, chi fa resistenza è contro. E contro l’intelligenza.


luigi totaro

luigi totaro