Giovanni Battista Bazurro, uno dei ragazzi che presero la via delle montagne per difendere l'Italia dai nazifascisti, ci ha inviato questo bel racconto: la storia di un soldato tedesco passato nelle file dei partigiani e fattosi italiano anzi genovese. Bazurro descrive con straordinaria freschezza questi tratti di vita vissuta ormai sessanta anni fa ricordandoci in maniera anche scherzosa la dura lotta ed i sacrifici di una generazione, quella del riscatto dal fascismo, la stessa che dopo essere stata costretta a conquistarsi (e conquistarci) la democrazia con le armi in pugno, ebbe la forza morale per scrivere nella Costituzione: "..l'Italia ripudia la guerra .." Il Partigiano Giovanni Battista Bazurro da molti anni ha casa da noi a Portoferraio, dove trascorre lunghi periodi, un po' come Renzo che si fece da tedesco un po' genovese lui da ligure si è fatto un po' elbano Renzo era un giovane soldato tedesco che detestava nazisti e fascisti per il loro crimini verso la popolazione inerme ed è per questo motivo che lasciò il suo reparto e salì in montagna per diventare un bravo Garibaldino. Era un ragazzo coraggioso sempre pronto per le azioni più pericolose, parlava abbastanza bene l’italiano ed aveva una forte carica umoristica che si inseriva molto bene nel clima di serenità e di amicizia, propri della Volante Severino. Quando qualcuno gli chiedeva: “Ma Renzo, di che paese sei?”, lui rispondeva “Mi sun du canneto u lungu”. Eravamo alla fine del mese di marzo e i repubblichini avvertivano l’avvicinarsi della resa dei conti e molti di loro abbandonavano le caserme e i presidi per salire in montagna, chiedendo di entrare nelle nostre formazioni. Un giorno arrivarono a Frassineto due repubblichini con il loro superiore, un sergente, chiedendo al Comandante di poter entrare nella nostra Brigata, e per farsi accogliere più facilmente declamavano le loro qualità di sabotatori, già sperimentate contro le strutture nazifasciste, nelle quali avevano operato in precedenza. Renzo ascoltava in silenzio il loro pomposo racconto, poi rivolgendosi al Comandante disse: “Gino, verifichiamolo subito se sono così bravi come dicono, se mi autorizzi scendo con loro in Val Bisagno e lì vedremo come se la cavano a tu per tu con il nemico”. Gino non è troppo convinto e avanza dei dubbi per la sicurezza dei partecipanti, e particolarmente per Renzo che si sarebbe trovato ad operare con delle persone conosciute appena da poche ore, ma dopo le ripetute insistenze di Renzo, Gino acconsente con precise direttive. Presa la decisone di partire si pensa subito come a evitare a Renzo di finire in una trappola, per cui si decide di trattenere presso la Brigata i documenti degli ex repubblichini. Anche la scelta delle armi segue la stessa logica e a Renzo viene assegnata la Machine Pistole e agli altri il semplice moschetto. Renzo indossa la divisa dell’esercito tedesco, non trascurando i particolari degli stivali e del cinturone, con relativa pistola, materiale di cui i depositi della Brigata erano sufficientemente forniti. Partono puntando su Sant’Alcese e Terrazza, per scendere poi verso Trensasco, arrivando all’imbrunire a San Gottardo dove fermano un “tranvai” in transito verso Genova. Salgono e disarmano due giovani della Polizia ausiliaria e con le armi si fanno consegnare anche i documenti. Renzo dice al manovratore di fermarsi prima della fermata successiva per non avere sgraditi incontri da una posizione svantaggiata. Scendono e dopo le necessarie minacce lasciano liberi i due questurini. Ma questi piangono e si disperano dicendo che non possono rientrare in Questura senza armi e documenti. Renzo li gela dicendo che si dovrebbero ritenere fortunati, perché quella è una spedizione particolare, mentre in un altro contesto l’epilogo sarebbe stato assai diverso. A quel punto i due si allontanano senza più fiatare. E’ una bella serata di luna piena e il bagliore che emana permette di controllare le strade anche in lontananza. Il silenzio della notte è rotto dal rumore dell’acqua che scorre nel letto del Bisagno e dall’abbaiare dei cani. Renzo tende l’orecchio per captare anche il minimo rumore sospetto, ma è tutto tranquillo. Continuano a scendere verso la città e arrivati al Fossato Cicala si fermano perché sta sopraggiungendo un carro con due tedeschi a bordo, ai quali Renzo intima “mani in alto!”, in tedesco, loro hanno un attimo di incredulità, poi quello che ha le redini in mano afferra l’arma che ha lì vicino. Ma Renzo più svelto di lui gli scarica contro una raffica di mitraglietta con la quale li stende tutti e due nel cassone del carro. Poi aiutato dal Sergente sposta i due cadaveri dietro il muretto della mulattiera che sale verso le colline. Invertita poi la direzione del carro puntano verso Pontecarrega dove al Gasometro delle Gavette staziona un presidio di repubblichini ai quali si deve portare il saluto dei partigiani della Severino. Renzo si è convinto della lealtà dei tre compagni di avventura e consegna la mitraglietta, sottratta al tedesco del carro, al Sergente che, a quel gesto di fiducia, risponde con un sorriso di complicità. Arrivati ai cancelli del Gasometro diventa un gioco da ragazzi disarmare la sentinella, strappare i fili del telefono ed entrare nel dormitorio, dove riposano gli eroi di Salò. Solo il Comandante, un maresciallo, è ancora sveglio e sta leggendo sotto la luce di una lampadina blu. Il Comandante alza le mani e dice: “Non sparate e noi non opporremo resistenza”. Renzo che non crede a quel docile atteggiamento ordina con fare minaccioso al Sergente di presidiare l’entrata del locale e di far fuoco contro chiunque si avvicini. Poi intima ai repubblichini di sdraiarsi a terra e al Comandante di spostare tutte le armi al centro del locale, togliere gli otturatori e caricatori e riporre tutto quanto in uno zaino che è appeso ad una brandina. Poi tutto il materiale viene portato in portineria per essere trasferito sul carro e partire per la strada del ritorno. Ma Renzo vede una persona, con abiti civili, che si sta allontanando nel piazzale, la ferma e apprende che l’uomo è un operaio addetto al controllo degli impianti, che dice di essere amico dei Partigiani. Sono momenti delicatissimi, Renzo non può rischiare di lasciarsi alle spalle potenziali pericoli, invita l’operaio a salire sul carro assieme ad alcuni prigionieri, mentre gli altri avrebbero seguito a piedi sotto il tiro delle armi di Renzo e del Sergente. Arrivati alle prime case di San Sebastiano e dopo le necessarie minacce, l’operaio viene rilasciato e lui assicura che non collaborerà con i nazisti, anzi si impegnerà anche lui nel combatterli. Renzo gli risponde: “Speriamo che non siano soltanto parole”. La strada è deserta, anche perché si è in pieno coprifuoco, e con un passo da bersagliere la colonna arriva in poco tempo a San Gottardo. Per Renzo è urgente allontanarsi dalla strada principale perché non si può sfidare oltre la buona sorte. La colonna dei prigionieri si avvia sulla strada per Trensasco, ma dopo un centinaio di metri si sente una voce: “Non sparate siamo disarmati”. Sono i due questurini disarmati poche ore prima i quali pregano Renzo di lasciarli aggregare a loro, strada facendo decideranno cosa fare, se entrare nelle formazioni partigiane o meno. Arrivati ad un certo punto della valle Renzo decide di abbandonare il carro e proseguire a piedi. Iniziano a salire lungo una mulattiera, con passo pesante dovuto alla quantità di materiale prelevato. D’altra parte è l’unico modo per portare alla Brigata il prezioso carico. Poi arrivati nelle vicinanze di Torrazza, Renzo fa accampare su uno spiazzo la colonna di prigionieri, sotto la sorveglianza dei tre “compagni d’avventura”, per andare ad accertarsi di quale situazione c’è in paese. Si muove con circospezione lungo le viuzze e trova un militare tedesco disarmato, che dietro l’angolo dell’osteria senza alcun pudore sta svuotando “il suo serbatoio”. Renzo si avvicina e inizia a parlare del più e del meno, per non destare sospetti mentre il suo scopo è quello di sapere quale situazione c’è a Torrazza. Soddisfatto il suo interesse, sta per congedarsi quando l’assale il dubbio sa lasciarlo rientrare o meno all’osteria e magari destare qualche sospetto negli altri nazisti, e senza esitazione gli punta la pistola alla nuca e lo spinge verso lo spiazzo dove gli altri sono in attesa. Il tedesco tra l’incredulità e lo spavento protesta a voce alta, ma gli viene chiusa la bocca e spinto sul sentiero che porta fuori dal paese. La salita rompe le gambe, ma bisogna stringere i denti e allontanarsi in fretta dai tedeschi. Renzo avverte che è cambiato l’umore nei prigionieri ma non ne conosce il motivo, e questo lo preoccupa non poco, ma gli viene in aiuto uno dei due ex questurini che sottovoce gli dice che i prigionieri non vogliono più proseguire, in attesa che faccia giorno, per poi dispersi nel bosco. Renzo li precede e a volte alta dice. “Vi do una buona notizia, siamo entrati in zona partigiana e in caso di necessità lanciamo un razzo rosso e in pochi minuti arrivano un centinaio di Partigiani.” Nessuno sa che ha bluffato e la storiella ha prodotto un certo effetto e senza ulteriori “incoraggiamenti” i prigionieri allungano il passo raggiungendo, in poco tempo, una zona più tranquilla. Vista la situazione, Renzo ritiene giusto farli riposare qualche ora, accamparsi sulla cresta del monte, montando lui la guardia. Ripresa la marcia arrivano a Frassineto attorno a mezzogiorno accolti da noi con un lungo applauso rivolto a Renzo e ai suoi “tre compagni d’avventura”. Il giorno dopo i prigionieri furono trasferiti in zona a disposizione del Comando della VI zona operativa, per i controlli e le valutazioni del caso, secondo la legge Bonomi. Renzo aumentò il suo prestigio e non nascondeva la gioia di essere stimato da Gino e da tutti noi. Queste azioni aumentarono lo spirito di lotta dei Partigiani e portarono scompiglio e smarrimento nelle file repubblichine.