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Omaggio ad Alda Merini “piccola ape furibonda”

Scritto da : Sergio Rossi
Pubblicato in data : lunedì, 21 marzo 2011

Alda Merini ci manca: per la simpatia umana, l’acuta intelligenza, la profonda sensibilità, il franco anticonformismo, la gradevolezza dell’immagine, mai banale e prevedibile. Ma soprattutto ci manca per la poesia che avrebbe ancora potuto creare, se la sua vita difficile e bellissima non si fosse interrotta poco più di un anno fa. Se la poesia fosse un abito, quello di Alda sarebbe d’alta sartoria: ricco, sontuoso e dalle mille ineffabili sfumature. Le starebbe a pennello e con quello addosso sarebbe irresistibile. Sì, perché la Merini e la poesia costituiscono un unicum inscindibile, come la vela per una barca, l’ala per un gabbiano, la gemma per un ramo.Già nella sua data di nascita, 21 marzo, primo giorno di primavera e oggi giornata internazionale della poesia, si può individuare il presagio della vocazione futura.I versi diventano prestissimo per lei una necessità irrinunciabile: Ho bisogno di poesia/questa magia che brucia la pesantezza delle parole/che risveglia le emozioni e dà colori nuovi Il poeta è una creatura speciale che può giungere là dove gli altri non approdano; lavora di notte, quando il silenzio è un invito alla riflessione sull’avventura della vita: I poeti lavorano di notte/quando il tempo non urge su di loro/ quando tace il rumore della folla/e termina il linciaggio delle ore./I poeti lavorano nel buio/come falchi notturni od usignoli/dal dolcissimo canto/e temono di offendere Iddio./Ma i poeti, nel loro silenzio/fanno ben più rumore/di una dorata cupola di stelle. Del resto la notte è un momento privilegiato per la Merini, esaltato anche nel titolo della silloge Superba è la notte Einaudi 2000: La cosa più superba è la notte/quando cadono gli ultimi spaventi/e l’anima si getta all’avventura Il poeta allora lavora a pieno ritmo e dalla fucina della sua creatività nascono i migliori pezzi di bottega. Ma l’ispirazione poetica non basta a lasciare segni duraturi: occorre la durezza dell’esistenza e la ricerca dell’assoluto: Le più belle poesie/si scrivono sopra le pietre/coi ginocchi piagati/e le menti aguzzate dal mistero./Le più belle poesie si scrivono/davanti a un altare vuoto,/accerchiati da agenti/della divina follia. E la poesia, infatti, è anche sofferenza; è un imperativo categorico a cui, talvolta, ci si vorrebbe sottrarre, tanto è impegnativo: O poesia, non venirmi addosso/sei come una montagna pesante,/mi schiacci come un moscerino Accanto alla poiesis, allo sforzo creativo liberatorio, l’altro grande tema della produzione della Merini, è la follia. Sono nata il ventuno a primavera/ma non sapevo che nascere folle,/aprire le zolle/potesse scatenar tempesta. La follia acquista in questi versi la medesima forza dirompente della primavera. Come lei, apre le zolle, diventa strumento di penetrazione e acquisizione della realtà profonda, che sfugge ai più. Talvolta, invece, la follia si identifica con la passione d’amore, perché anche in essa è il forte sentire, il desiderio, a urlare, mentre la ragione tace, dimessa e sconfitta: Io sono folle, folle, folle d’amore per te/io gemo di tenerezza perché sono folle, folle, folle/perché ti ho perduto./Stamani il mattino era così caldo/che a me dettava quasi confsione/ma io ero malata di tormento, ero malata di tua perdizione. Il sentimento amoroso è centrale nella produzione meriniana ed esprime, umanissimamente, il binomio carne/spirito della sua essenza: Oh il veleggiare del tuo caldo pensiero/sopra la mia parola/e il tuo dormire selvaggio/accanto al mio seno vivo;/o l’adombrarsi della primavera/quando cade il suo del seme/sulla terra feconda di parola./Così tu sei l’esempio/del sole mio. Oppure, quasi in un sussurro all’amato, in una chiusa bellissima: Abbi pietà di me miseramente/perché ti amo tanto dolcemente La donna che invoca il suo amore e il caldo abbraccio dei suoi lacci acquisisce nei versi seguenti l’inquieta tenerezza d’una sventata agnella: Lasciami lentamente delirare/e poi coglimi solo e primo e sempre/nelle notti invocato e nei tuoi lacci/amorosi tu atterrami sovente/come si prende una sventata agnella. Al contrario, il silenzio legato all’assenza non è quello creativo, che spinge alla poesia, ma è, desolatamente, soltanto mancanza: Datemi i rumori di Charles/datemi il suo pensiero e il suo lento fuggire/ridatemi i rumori della sua carne perfetta. L’eros si offre dunque come un miracoloso impasto tra spiritualità e sensualità, come il principe dei sentimenti. Sì, perché sono proprio questi ultimi a dover governare la vita e le scelte. Lo dice chiaramente Alda, rivolgendosi a una creatura all’inizio del suo percorso esistenziale: Bambino, se trovi l’aquilone della tua fantasia/legalo con l’intelligenza del cuore./Vedrai sorgere giardini incantati/e tua madre diventerà una pianta/che ti coprirà con le sue foglie./Fadelle tue mani due bianche colombe/che portino la pace ovunque/e l’ordine delle cose./Ma prima di imparare a scrivere/guardati nell’acqua del sentimento. La contemplazione nell’acqua del sentimento, l’aquilone della fantasia, l’intelligenza del cuore possono guidare nel labirinto della vita e far diventare un giorno quel bambino un uomo di pace e di giustizia. Un altro invito presente nelle liriche della Merini è quello di vivere pienamente il presente, specialmente dopo il baratro dell’esperienza manicomiale. L’ansia di vita la spinge a esaltare l’hic et ninc, senza farsi condizionare dal passato: Spesso ripeto sottovoce/che si deve vivere di ricordi solo/quando mi sono rimasti pochi giorni./Quel che è passato/è come non ci fosse mai stato./Il passato è un laccio che/stringe la gola alla mia mente/e toglie energie per affrontare il mio presente./Il passato è solo fumo/di chi non ha vissuto./Quello che ho già visto/non conta più niente/.Il passato ed il futuro/non sono realtà ma solo effimere illusioni./Devo liberarmi del tempo/e vivere il presente giacché non esiste altro tempo/che questo meraviglioso istante. Certo, il discorso poetico di Alda allude alla tragicità del suo passato, ma se ne può ricavare un insegnamento valido per tutti, quello di aderire compiutamente, ovunque e sempre, alla trama dei giorni che ci è dato di vivere. Ma il vertice sommo della sua poesia, la Merini lo raggiunge forse con La Terra Santa, del 1984, la prima scrittura poetica dopo l’uscita dal manicomio, che non è solo la testimonianza di un vissuto drammatico, sconvolgente, ma anche la prova della straordinaria tensione verso il domani che verrà: Ho conosciuto Gerico,/ho avuto anch’io la mia Palestina,/ le mura del manicomio/erano le mura di Gerico/e una pozza di acqua infettata/ci ha battezzati tutti./Lì dentro eravamo ebrei/e i Farisei erano in alto/e c’era anche il Messia/confuso dentro la folla:/un pazzo che urlava al Cielo/tutto il suo amore in Dio. Qui, all’inferno della clinica/lager, con il suo amore negato (E dopo, quando amavamo/ci facevano gli elettrochoc/perché, dicevano, un pazzo/non può amare nessun); alla prigione che assomiglia alla morte (Eravamo come gli uccelli/e ogni tanto una rete/oscura ci imprigionava); si contrappone il desiderio di riscatto, di resurrezione, l’apertura alla vita, comunque: Ma un giorno da dentro l’avello/anch’io mi sono ridestata/e anch’io come Gesù/ho avuto la mia resurrezione. Sicuramente, però, la grandezza di Alda, oltre che nei contenuti alti e universali, sta anche nella limpidezza formale del suo canto. La parola poetica non è mai oscura, ermetica, labirintica ma piana, lineare, pura come acqua sorgiva. E di attingere a piene mani a quell’acqua abbiamo un estremo bisogno, per poter dire, un giorno, come lei, Più bella della poesia è stata la mia vita.


alda merini

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