Caro Direttore, nel tuo “A sciambere” di ieri l’altro, col racconto della “piccola storia ignobile” della ragazza spremuta e cacciata dal lavoro, mi ha colpito -tra l’altro- un’espressione: “liberalismo barbaro, cieco e ottuso”. Spiego perché. L’altra sera la ridente signora Gelmini -tra sciocchezze che avrebbero umiliato un concorrente del Grande Fratello, figuriamoci il ministro dell’Istruzione- è tornata su uno dei ‘cavalli di battaglia’ della nostra scassata Destra, la necessità della “meritocrazia”, che è come dire: i meritevoli devono andare avanti, gli altri non importa; e siccome i meritevoli sono una minoranza, sulla scuola si può e si deve risparmiare, selezionando le eccellenze. Il giorno seguente, in una trasmissione mattutina su La7 condotta da Alain Elkan, è riemersa la nota “sindrome Costanzo”, quella che porta un po’ tutti a parlare perché hanno la bocca e sono in televisione, anche quando le competenze sono del tutto marginali. Non lo dico per la professoressa Mastrocola, che è una donna stanca e delusa, scivolata decisamente su posizioni reazionarie (buone per fare vendere i libri che scrive sulla scuola disprezzando la scuola, dalla quale pure trae il materiale), ma potrebbe essere un interlocutore interessante. Fra gli intervenuti, però, era anche il prof. Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani e a suo tempo ministro, che è un uomo dell’‘800, e l'ultima volta che ha visto una classe di scuola media aveva 13 anni. E tuttavia, un po’ come avviene coi grandi club di serie A, basta la sua presenza a intimidire i presenti, anche quando, penso a Erri De Luca, sono schierati su ben altre posizioni. L’oracolo Paolucci ha svelato che la decadenza della scuola ha le sue cause -udite! udite!- nel ’68 e nella ‘predicazione’ di don Lorenzo Milani. Poi anche lui ha tirato fuori la meritocrazia. E’ curioso: quando si dice che la scuola deve valorizzare i "meritevoli", si intende che li deve premiare (e, per contrapposto, punire i vagabondi), come se quello fosse il suo compito istituzionale. Ma il compito della scuola pubblica è scovarlo il ‘merito’, soprattutto quando è nascosto e non si manifesta; perché solo così fa un investimento per tutta la società, ed evita di campare un cripto-meritevole come se fosse un mediocre naturale; e i mediocri naturali costano di più dei vispi, e rendono tanto meno, a sé e a tutti. La scuola pubblica è un servizio dello Stato per tutti; non è un concorso a premi; e l’intelligenza, il merito, deve spremerlo tutto fino all’ultimo goccio dai suoi alunni, perché non ne vada buttata neppure una stilla. Ecco perché si deve investire, e non tagliare i fondi: per salvaguardare tutto il merito dov’è e per quanto ce n’è. Investire oculatamente, questo diceva la tradizione liberale, non la macchietta che ne fa oggi questa gente catapultata, certo non per merito o competenza, in posti di altissima responsabilità. Altri si ha talvolta l’impressione che confondano il ‘merito’ con il privilegio, e con il proprio privilegio. Lo stesso vale per la tua “piccola storia”. Liberalismo barbaro, cieco e ottuso. Eppure la giovane protagonista il merito se l’era conquistato, e nel merito ci credeva e vi investiva. I suoi datori di lavoro ne avevano anche preso atto, e avevano visto che era per loro vantaggioso. Ma di fronte al primo ‘sgarro’ -poiché ormai ammalarsi per chi lavora (e per una donna anche semplicemente restare incinta, che è il massimo della salute) è considerato uno ‘sgarro’-, di fronte a un’assenza forzata i “barbari ciechi e ottusi” decidono di privarsi di una collaborazione importante e preziosa, per di più calpestando sensibilità, fedeltà, merito e giustizia. E dove la ritrovano una così? Questo nuovo capitalismo fa rimpiangere davvero il liberalismo della Destra tradizionale. Barbaro, cieco, ottuso. E stupido. Il solo merito che conosce è quello dell’appartenenza familiare, coltivato nella scuola privata (paritaria, come dice Gelmini: ma paritaria con chi?) che l’appartenenza la sa riconoscere (è quella che caccia i soldi) e prepara le dinastie, anche se poi i rampolli valgono quello che valgono (ne abbiamo esempi copiosi): gli altri, anche se valgono, anche se meritano, sono solo accessori, e si cambiano senza farsi troppi problemi. Forse è per questo che in Italia è scomparsa la grande industria, e l’impresa -con lodevolissime eccezioni- ‘gioca’ solo con la finanza. Il Ministro ha tirato di nuovo fuori la storia dei finanziamenti sprecati per la Ricerca sugli “asini dell’Amiata”: qualcuno lo spieghi alla Gelmini e a tutti che la ricerca scientifica si definisce per il metodo, non per l’oggetto. Forse il Ministro non ha idea di cosa sia quella ricerca su quegli asini -neanch’io lo so-, ma sono certo che chi la conduce sa bene quello che fa, e chi controlla in ambito scientifico ritiene che si debba fare. Tanto basta. La scienza ha paradigmi diversi dal mercato; la ricerca ‘applicata’ -quella che piace al Ministro e alle imprese perché ‘rende’ presto- non potrebbe avvenire senza la ricerca ‘di base’ (quella sugli asini, o sui papiri, o sulle poesie) e nessun cardiochirurgo ha imparato a leggere, a scrivere e a studiare in sala operatoria. Negli ultimi quattro anni abbiamo perso il 9% di iscrizioni all’Università: presto potremo risparmiare stipendi di professori e razionalizzare l’impiego delle risorse; forse potremo anche delocalizzare l’Università, trasferendola nei Paesi del Terzo Mondo. Così staranno tranquilli gli amici Padani: magari gli Africani non smetteranno di venire da noi, ma potranno sempre emigrare in Africa i nostri giovani migliori. “C’è bisogno di più solidarietà, di umanità, di senso della collettività”, concludevi. Forse c’è bisogno anche più di cervello.
Totaro media