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La legge sui parchi vent’anni dopo

Scritto da : Sergio Rossi
Pubblicato in data : sabato, 19 febbraio 2011

Il libro di Michele Ainis “La legge oscura” (come e perché non funziona) fa luce e ci aiuta a capire come delle leggi si possa rimanere prigionieri o comunque avviluppati. I riferimenti agli anni più recenti ci dicono, per esempio, che più che il parlamento è il governo a fare le leggi nella maniera sempre più ingestibile; vedi le mille proroghe. Ma anche, per il ricorso sempre più frequente alle leggi delega che sottraggono poi il controllo al parlamento, normative destinate a far danni e a produrre ulteriori inghippi. L’autore ricorda che Jefferson riteneva che le leggi, costituzione inclusa, si sarebbero dovute rinnovare ogni 19 anni (il tempo di una generazione). Sono stato così stimolato a venti anni precisi dall’entrata in vigore della legge quadro sui parchi, la n. 394, mentre sui parchi infuriano le polemiche a tornare a darci un’occhiata avendocela già data a suo tempo al momento della sua entrata in vigore. Già dalle prime righe dell’art 1 sui principi, la cosa che colpisce è che parecchi di quelli che oggi parlano dei parchi sicuramente ignorano norme e principi che li sono quanto mai chiari e precisi. E lo sono, per esempio, per quanto riguarda la nostra responsabilità nazionale ma anche internazionale. E che la “specialità” dei parchi sia data da quel suo agire e intervenire in ambito ambientale, senza alcuna esclusione; natura, paesaggio, assetto idrogeologico, archeologia, geologia. Da qui anche la raccomandazione che la ricerca scientifica a cui i parchi devono dedicarsi sia condotta in maniera interdisciplinare. D’altronde, gli articoli costituzionali richiamati in apertura dalla 394 sono: il 9, paesaggio e patrimonio nazionale etc, e il 32, la salute dell’uomo che, per molti aspetti, dipende dalle condizioni ambientali, dall’inquinamento, etc. Se questa è la premessa segue subito dopo –sempre nell’art 1 punto 5 – che Stato, Regioni ed enti locali attuano forme di cooperazione e di intesa per sperimentare e valorizzare attività produttive particolari. Qui nel 98 – sette anni dopo l’approvazione della legge – il legislatore ritenne opportuno con la legge 426 precisare meglio questa norma stabilendo che soggetti pubblici e privati avrebbero dovuto e potuto stipulare anche patti territoriali, in rapporto ai sistemi territoriali, di aree protette riguardanti le Alpi, l’Appennino, le isole minori e le coste dove operano le aree protette marine. Questi accordi avrebbero dovuto riguardare le attività agro-silvo-pastorali, l’agriturismo, l’artigianato, etc. Oltre un decennio fa, insomma, opportunamente il legislatore, considerate anche le incertezze ministeriale, aveva voluto esplicitare che sì, i parchi e le aree protette erano gestioni “speciali”, ma aperte al coinvolgimento dei privati sulla base di ben definiti progetti legati alle specificità dei diversi territori del paese raccordate peraltro a una dimensione europea e mediterranea sempre più coinvolta e segnata dalle politiche comunitarie. (Oggi il 50% della legislazione nazionale discende da quella comunitaria). Come si possa oggi, dinanzi a norme tanto chiare, sproloquiare ora sulla privatizzazione, ora sull’estromissione delle Regioni da qualsiasi competenza in materia di coste e di mare e delle relative aree protette, riesce davvero inspiegabile. E lo è non di meno il fatto che neppure il parlamento e non solo il governo e il ministero dell’Ambiente e del mare non si sia mai chiesto perché quelle norme, pur così chiare, siano state snobbate, ignorate, aggirate o azzoppate fino alle più recenti decisioni sul Parco nazionale dello Stelvio. La legge 426 aveva preso atto che sia l’esigenza posta chiaramente dalla 394 in materia di cooperazione e al tempo stesso di classificazione delle aree protette che apparivano sempre più crescere ma in maniera confusa senza una decente classificazione, doveva essere corretta. Restava l’obiettivo della Carta della natura e vorrei ricordare che la legge faceva esplicito riferimento alla legge 183, di poco precedente la 394, che aveva rappresentato un passaggio fondamentale nell’assunzione diretta da parte dello Stato e delle istituzioni in un ambito tanto cruciale anche per le aree protette, di una responsabilità che, purtroppo, è stata spesso dimenticata o quasi. Basta scorrere le cronache più recenti per averne drammatica conferma. Inoltre, a queste opportune messe a punto del legislatore, hanno fatto seguito provvedimenti che hanno completamente scompaginato la sala macchine ministeriale con l’abrogazione del comitato Stato-Regioni, della programmazione triennale, le cui competenze furono trasferite alla Conferenza Stato-Regioni in cui fa da padrone lo Stato che ha tranquillamente ignorato quelle questioni “trasferite”. D’altronde, la proposta rimasta finora “lettera morta” di un Senato in cui Regioni e autonomie potessero svolgere una funzione di controllo nazionale, e non solo, scaturiva da questa esigenza. Della stessa Consulta tecnica rinnovata con i suoi 20 esperti, 10 in competenze giuridico-amministrative e 10 in competenze tecnico-scientifiche, si persero subito le tracce. Questa situazione, che perdura da un decennio abbondante per la mancata attuazione dell’art 75 della legge Bassanini, che prevedeva una vera riforma del ministero dell’Ambiente, non poteva certo favorire quella pianificazione che era, e resta, uno snodo essenziale dei parchi e delle aree protette altrimenti la loro “specialità” risulta mera e velleitaria chiacchiera. Come abbiamo ricordato anche in scritti recenti, specie con i mutamenti mondiali nel rapporto ambiente-economia, anche la doppia pianificazione prevista dalla legge 394 – i famosi due piani – è andata via via mostrando i suoi limiti, non ultimo quello della complicatezza di sfornare non uno ma bensì due piani. A dare un vero colpo di grazia a questa situazione già difficoltosa è stata la norma del nuovo codice dei beni culturali e paesaggistici che al Piano ambientale ha sottratto –come sappiamo – la parte paesaggistica. Ai due piani si aggiunge così un terzo tempo la cui proiezione in ogni caso è esterna al parco. E a conferma che i tutti i freni si sono allentati non c’è solo il fatto che si sia potuto, con una legge delega, dare una simile “mazzata” ai parchi ma che ciò sia potuto avvenire, di fatto, senza colpo ferire. Che su questo sfondo siano andate prendendo corpo le idee e ipotesi più bislacche, a partire da quella della abrogazione dei parchi, non può sorprendere più di tanto, anche se questa proposta lascia, ovviamente, basiti. Siamo l’unico Paese nel mondo che ha rimesso in discussione i parchi e il suo ruolo al punto di non escluderne lo scioglimento! Da qui anche tutta una serie di “pretese” ministeriali: dalla scelta dei direttori al controllo della spesa, che appare grottesco persino a confronto con i vecchi controlli prefettizi sugli enti locali. È sufficiente – credo – questa rapidissimo exursus per capire il punto a cui si è arrivati dopo un primo decennio, certo non privo di problemi e intoppi, ma, comunque, positivo e quello successivo, quando è cominciata una fase discendente che ora rischia addirittura di precipitare. E a rendere tanto più allarmante la situazione è il fatto che le risposte appaiono finora deboli e soprattutto elusive rispetto alle cause di fondo della crisi. E se i silenzi romani (parlamento incluso) appaiono, e sono, sorprendenti non lo sono di meno i comportamenti delle stesse Regioni, comprese alcune di quelle che storicamente hanno concorso in maniera determinante a costruire se non un sistema, almeno una presenza nazionale di tutto rispetto di parchi e aree protette. E, contrariamente a quel che pensava Mao, se sotto il cielo c’è tanta confusione c’è anche poco da sperare. Il lavoro avviato dal Gruppo di San Rossore che il 28 febbraio terrà la sua prima assemblea nazionale e Firenze ha come obiettivo proprio quello di rimettere a fuoco questa allarmante situazione per poter rilanciare una riflessione e un impegno a sostegno dei parchi e delle aree protette.


foto strati

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