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“Deportare” : una parola grossa

Scritto da : Sergio Rossi
Pubblicato in data : lunedì, 21 ottobre 2002

Scrivo queste due righe a proposito di un piccolo fatto in cui mi sto imbattendo spesso in questi giorni. Si tratta di un fatto locale, ed è probabile che -come il recente infortunio della Festa dell’Uva- possa essere spiegato con un po’ di leggerezza, con la fretta incolpevole di alcuni e la comprensibile distrazione di molti. Non ti sto segnalando un caso di revisionismo storico -ci mancherebbe- non la farei così tragica, oltretutto è anche meno appariscente e smaccato del mascellone capoliverese (francamente di cattivo gusto). Il mio dubbio è dettato forse dalla pignoleria che prende spesso il sopravvento nei maniaci del politicamente corretto, ma vorrei sapere che ne pensi, e senza farla tanto lunga vengo al punto. Non so quanti sono gli ebrei che vivono all’Elba, credo non molti, ma temo che sentirebbero almeno il mio stesso disagio se capitasse loro di leggere e ascoltare con la stessa insistenza con cui capita a me l’espressione “deportazione dei cani”. Lo so che la questione del canile è importante, lo so che sgomberare i macelli vorrebbe dire sopprimere molte bestie, so anche che un rilievo simile al mio è stato avanzato in Consiglio comunale da Nurra. Non credo di dovermi guadagnare udienza dicendo che agli ex-macelli quest’amministrazione sta facendo un tale macello che presto li richiameranno di nuovo macelli (senza ex); né voglio fare professione di fede animalista parlando del mio amato Goran. Io qui non vorrei parlare proprio del canile. Io voglio solo dire che deportare ha a che fare coi campi di sterminio, coi treni blindati, con le camere a gas. Nell’immaginario collettivo (la memoria virtuale di chi per sua fortuna non ha ricordi di quei fatti) deportare è il cappottino rosso di Schindler’s list, è il Giardino dei Finzi Contini e la Vita è bella. Le parole sono importanti. Perché viene usata -allora- quella parola? Lo chiedo anche ai “Ragazzi del canile”, se la scelta è loro. Spero che non si consideri futile o polemica la questione che pongo. Sappiamo tutti cosa significhi deportazione per gli ebrei (e i rom e le altre vittime della deportazione e della follia nazista); sappiamo come sia sentita e sofferta l’unicità di quella tragedia, e credo che -anche da laici- siamo d’accordo sull’unicità della vita umana. Perché non rispettarla fino in fondo, allora, e perché non sempre? Alberto Giannoni La tua osservazione Alberto ha un fondo di validità e può darsi che ci sia, nell’uso di quel termine, sia da parte dei ragazzi colpiti da un odioso provvedimento, che da parte dei giornalisti, una involontaria irriverenza nei confronti delle vittime dell’olocausto, anche se ci sarebbe da aggiungere che purtroppo le deportazioni non sono state appannaggio dei nazisti tedeschi e dei fascisti nostrani, Stalin e Pinochet, Videla e Pol Pot, Sukarno e Saddam Hussein e decine e di altri dittatori hanno perpetrato fino ai giorni nostri l’infame pratica del genocidio e della deportazione di massa. Tragedie consumate nell’inerzia e nel silenzio, quando non con la complicità, delle democrazie occidentali, sempre pronte a condurre battaglie per la libertà e crociate solo quando i dittatori mettono in pericolo gli equilibri e gli squilibri che fanno prosperare Wall Street e Piazza Affari, solo quando si tratta di difendere questo bestiale status quo che divide il mondo in chi vive con la filosofia dello spreco e in chi muore di stenti. Sì Alberto, deportazione è una parola grossa da usare con molta cautela e moderazione, ma parliamo ad un (bravo) giornalista che sa che talvolta il linguaggio lo si forza per attenere l’attenzione, per scuotere e questo problema è sicuramente meritevole di attenzione. Ho Chi Min usava dire “Urlino le ingiustizie del mondo” ma non specificava la dimensione delle ingiustizie ammesse all’urlo, secondo noi perché un’ingiustizia, un atto di scimmiesca prepotenza, anche se benedetto da una maggioranza, è comunque un fatto grave che deve far insorgere ed indignare le persone per bene, comunque la pensino. Ci prendiamo con te (e soprattutto con chi ha patito la shoah) l’impegno a non usare in futuro il termine “deportazione” per gli ospiti del canile portoferraiese. Ci consentirai, spero di usarlo, come abbiamo già fatto, quando ricorderemo agli amministratori elbani (di cromatismi diversi) una delle pagine più vergognose che hanno scritto, non essendo ancora riusciti a realizzare, nell’Elba opulenta, una struttura in grado di assistere gli anziani non autosufficienti, così condannandoli ad andare a spengersi oltre il canale, a molte miglia dalla loro terra e ad anni luce dall’attenzione e dalla coscienza (ammesso che ce l’abbia) di chi governa l’Elba.