Le vicende della nave a ruote Polluce e del suo inestimabile tesoro sono ormai note ai più, ma credo che valga la pena riassumerle. Il 17 giugno del 1841 il Polluce viene speronato al largo di Capo Calvo dal piroscafo Mongibello e cala a picco in pochi minuti. I giornali dell’epoca parlano dell’avvenimento e fanno una sorta di inventario dei preziosi che il Polluce ha portato con sé negli abissi marini: migliaia di monete d’oro e d’argento, centinaia di smeraldi e rubini e diamanti, gioielli di altissimo artigianato artistico appartenuti a contesse e duchesse. In altre parole: uno dei relitti più ricchi e più appetibili esistenti al mondo. Nel 1995 le coordinate geografiche del Polluce vengono segnalate correttamente alle autorità italiane da Henri Delauze, noto oceanografo. Ma non succede niente per cinque anni. Fino a che, nel 2000, alcuni inglesi dall’alto di un rimorchiatore massacrano per tre settimane l’opera morta del Polluce calando a 102 metri di profondità una benna e recuperando con essa parte del tesoro. I manufatti vengono trasferiti a Londra con facilità, ma un ottimo lavoro di intelligence dei Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Artistico riesce a impedirne la vendita e a riportarli in Italia. Martedì 23 settembre le vicende del Polluce sono state rinverdite da un “passaggio” sul primo canale televisivo, che ha opportunamente sottolineato la necessità di rendere fruibili al pubblico i reperti ritornati sul suolo italiano. Ma c’è un’altra esigenza non meno impellente, cioè quella di recuperare ciò che rimane della nave e del suo carico. Infatti, checché ne pensi chi ha affermato che “il gioco non varrebbe la candela”, il tesoro residuo è con ogni probabilità ancora assai cospicuo, senza dubbio più consistente di quanto era sembrato in un primo momento. Vediamo perché. Analizzando il filmato apparso in TV e, soprattutto, rielaborando e confrontando le immagini del relitto ottenute con un sidescan sonar prima e dopo il danneggiamento, si evince che le operazioni di ricerca dei preziosi sono state imprecise. La benna, infatti, è spesso intervenuta fuori bersaglio oppure si è accanita contro le parti metalliche del Polluce che, con la loro solidità, devono aver fatto perdere non poco tempo ai ‘ricercatori’ consentendo che parte delle stive venisse risparmiata. Nell’immagine che precede la ‘ricerca’ il Polluce si presenta intatto e sono ben leggibili non solo l’intero profilo ma anche particolari significativi come la profonda ferita sulla fiancata sinistra – conseguenza dell’urto con il Mongibello - il fumaiolo e il copriruota di destra. L’ immagine successiva alla ‘ricerca’ mostra invece uno sconquasso nel fondo fangoso intorno al Polluce, con un ampio cratere (circa 100 metri x 50) a pianta irregolarmente triangolare. Anche il Polluce appare investito dalla furia della benna: profonde lacerazioni si notano nell’area poppiera di destra e verso prua, mentre fumaiolo e copriruota non sono più al loro posto. Ma proprio questi ultimi devono aver fatto da scudo parziale al resto del fasciame evitando il disastro totale. Ipotizzando che scopo dei ‘ricercatori’ fosse quello di individuare le parti ‘molli’ della nave, cioè le stive lignee di prua e di poppa e le cabine dei passeggeri nelle quali erano riposti bauli e cofanetti, gioielli e monete, non è difficile immaginare la scena. Che potrebbe essere questa, pur con qualche concessione alla fantasia. I primi tentativi vanno a vuoto perché, pur possedendo le coordinate geografiche, ai novelli Indiana Jones non risulta semplice centrare l’obiettivo a oltre cento metri di profondità, anche per la presenza di correnti, in quel punto del canale abbastanza forti. Dapprima la benna rovescia solo fango sulla coperta del rimorchiatore, ma i ‘ricercatori’ non si danno per vinti, convinti come sono di avere parecchio tempo per agire. Poi compaiono i primi pezzi di alberatura e con essi la certezza di aver individuato il Polluce. Ma ecco un ostacolo imprevisto: la benna si impiglia tra fumaiolo e copriruota, li squassa, li lacera, li strappa e li butta lontano. I giorni passano veloci. Infine le prime imbracate fruttuose con grappoli di monete d’oro e smeraldi che brillano sul ponte. Le operazioni, frenetiche, si spostano verso la destra poppiera del Polluce che viene sventrata e dà alla squadra di ‘ricercatori’ altre soddisfazioni d’oro e d’argento. Non senza intralci perché le parti metalliche della timoneria imbrigliano di nuovo la benna. Sono passate tre settimane, il tempo volge al brutto, qualcuno potrebbe curiosare, è meglio levare le ancore. Tanto ci potrà essere un secondo round. E soprattutto il ‘recupero’ è già notevole: 311 monete d’oro, 2000 d’argento, parecchi gioielli, altri preziosi reperti. Per un valore di un milione e mezzo di sterline. Ci sono – non c’è dubbio – ingredienti a iosa per la trama di un film di sicuro successo. Da un momento all’altro potrebbero comparire sceneggiature e copioni. Ma per tutti coloro che hanno a cuore la tutela di beni storico-artistici irripetibili, di immenso valore per la comunità, l’unico interesse è che, oltre a valorizzare le memorie ritrovate, si recuperi al più presto il rimanente tesoro del Polluce. E che si faccia luce su troppi aspetti oscuri. Come i seguenti. Chi ha indicato a quel gruppo di ‘ricercatori’ la posizione esatta del relitto? E’ vero che quegli Indiana Jones avevano l’autorizzazione al recupero? Se sì, quali uffici l’hanno concessa e in forza di quale legge dello Stato? Perché in quei 20 giorni di ‘interventi’ (oggi sono in vena di eufemismi!) sul Polluce nessuno è andato a verificare quello che si stava perpetrando? Una risposta pubblica a questi interrogativi, oggi sulla bocca di molti, non guasterebbe. Anche in nome di quella sana trasparenza che qualche anno fa andava di moda. Perché non siamo di fronte a una favoletta, ma a uno scandalo di proporzioni internazionali. E perché, fra l’altro, non si tratta di un mucchio di cocci, ma di monete d’oro e gioielli e pietre preziose che al valore storico-artistico incommensurabile associano un valore commerciale per miliardi di lire. Tanti miliardi. Di proprietà dello Stato italiano, almeno fino a prova contraria.
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