Dei tre poteri dello Stato, quello giudiziario mi è sempre parso il più complesso e sacro. Non che il legislativo e l’esecutivo siano uno scherzo, per carità, ma GIUDICARE, ergersi a giudice di qualcuno per deciderne il futuro, l’assoluzione o la condanna e, in quest’ultimo caso, le modalità di pena e di redenzione, rappresenta, ai miei occhi, quanto di più sublime e terribile al contempo, può compiere un uomo su questa terra. Da qui, il rispetto, l’ammirazione, lo sgomento, anche, direi, che provo nei loro confronti: che responsabilità enorme portano sulle loro spalle, che fardello unico e indivisibile! A loro spetta l’ultima parola, loro possono/devono decidere e la solitudine, credo, sia una loro fedele compagna. I giudici che poi, in questo nostro bellissimo e disgraziato Paese, hanno scelto di dedicare lavoro, energie, tempo e spazio privato e pubblico, alla lotta alla mafia, sacrificando la loro stessa libertà e quella delle loro famiglie, rischiando giornalmente l’incolumità e la vita, incarnano, secondo me, il vero eroismo. Che è quello di chi esercita il proprio dovere senza lasciarsi intimidire pur consapevole dei rischi enormi, spesso mortali, a cui può andare incontro: come Giovanni Falcone che riesce a penetrare i misteri di Cosa Nostra, grazie agli incontri con Tommaso Buscetta, il superpentito, che raggiunge più volte in America. E’ in seguito a questi colloqui che si dirada la nebbia fitta che avvolgeva l’organizzazione criminale; si capisce che la mafia siciliana ha la struttura di una cupola e che non è invincibile. La mafia non è affatto invincibile; è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine. Piuttosto, bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave; e che si può vincere non pretendendo l'eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni Dall’esperienza nasce il pool antimafia palermitano, guidato da Rocco Chinnici, che vede affiancare a Falcone, tra gli altri, il collega e caro amico Paolo Borsellino. Chinnici perderà la vita nell’83, per una Fiat 127 imbottita di tritolo destinata a lui, ma il pool continuerà ad operare alacremente. E in un’intervista di vent’anni fa, ancora purtroppo straordinariamente attuale, Borsellino individuava nel rapporto mafia-politica e nella rinuncia da parte di certi giudici ad affrontarlo, il nodo gordiano dell’intera problematica: L'equivoco su cui spesso si gioca è questo: si dice quel politico era vicino ad un mafioso, quel politico è stato accusato di avere interessi convergenti con le organizzazioni mafiose, però la magistratura non lo ha condannato, quindi quel politico è un uomo onesto. E NO! questo discorso non va, perché la magistratura può fare soltanto un accertamento di carattere giudiziale, può dire: beh! Ci sono sospetti, ci sono sospetti anche gravi, ma io non ho la certezza giuridica, giudiziaria che mi consente di dire quest'uomo è mafioso. Però, siccome dalle indagini sono emersi tanti fatti del genere, altri organi, altri poteri, cioè i politici, le organizzazioni disciplinari delle varie amministrazioni, i consigli comunali o quello che sia, dovevano trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze tra politici e mafiosi che non costituivano reato ma rendevano comunque il politico inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. Questi giudizi non sono stati tratti perché ci si è nascosti dietro lo schermo della sentenza: questo tizio non è mai stato condannato, quindi è un uomo onesto. Ma dimmi un poco, ma tu non ne conosci di gente che è disonesta, che non è stata mai condannata perché non ci sono le prove per condannarla, però c’è il grosso sospetto che dovrebbe, quantomeno, indurre soprattutto i partiti politici a fare grossa pulizia, non soltanto essere onesti, ma apparire onesti, facendo pulizia al loro interno di tutti coloro che sono raggiunti comunque da episodi o da fatti inquietanti, anche se non costituenti reati. Dal lavoro del pool scaturisce tra l’ ‘86 e l’ ‘87 il maxiprocesso che porta alla sbarra, nel capoluogo siciliano, più di quattrocento persone. A meno di due mesi l’uno dall’altro Falcone e Borsellino sono assassinati, insieme alle rispettive scorte e alla moglie di Giovanni, Francesca Morvillo. Davvero, quelle due date, 23 maggio e 19 luglio 1992, fanno piombare l’Italia onesta nel lutto e nello sgomento e fanno gridare a un altro magistrato, Antonino Caponnetto, straziato dal dolore, E’ finità, è finita.. Appena due anni prima, il 21 settembre 1990, un giudice di soli trentott’anni, Rosario Livatino, era stato ucciso sulla SS 640, mentre si recava, senza scorta, in tribunale. A fermare la sua vita erano stati quattro sicari assoldati dalla Stidda agrigentina. Livatino, detto il giudice-ragazzino, per la giovane età, ventott’anni in cui diventa magistrato, si era subito distinto per l’impegno profuso in quella che lui considerava una missione da compiere, riuscendo a venire a capo di quel sistema di corruzione che avrebbe preso il nome di Tengentopoli Siciliana. Livatino, attraverso lo strumento della confisca dei beni, infligge duri colpi alla mafia ed entra inevitabilmente nel loro mirino. Non c’è scampo, purtroppo. Quella che segue è la testimonianza del suo professore di Liceo, Giuseppe Peritore. La lettera del giovanissimo Rosario (Sarino) che a soli ventitré anni è già laureato e scrive al vecchio insegnante per comunicargli la bella notizia e l’espressione del riconoscimento che prova nei suoi confronti, è un luminoso esempio della straordinaria sensibilità umana del neodottore. Conosco Sarino Livatino studente nel mio corso al liceo di Canicattì, l’anno scolastico 1969-70. Mi colpisce subito la sua intelligenza e la sua sensibilità di uomo. Quando dal posto si alza e prende la parola mi entusiasma. La sua mente e la mia comunicano a livello extrasensoriale. Io faccio una lezione di storia e Rosario è vicino a me per assistermi. Come rappresentante d’istituto sono accanto a lui al colloquio orale degli esami di maturità. La terza liceo che accompagno ha un gruppo di testa di assi…ma il portabandiera è Rosario Angelo Livatino. Universitario non mi dimentica; ci scriviamo; in lui vedo già il futuro magistrato. L’11 agosto 1975 mi scrive la lettera "bomba" per comunicarmi la sua laurea in Giurisprudenza con il massimo dei voti e la lode. In vita mia non ho mai ricevuto, e forse mai riceverò, i riconoscimenti contenuti in questa lettera che diviene il documento più importante della mia esistenza. Copia Lettera dell’11 agosto 1975 Canicattì, 11/8/1975 Gentile e stimato Professore, mi sono permesso di disturbarLa inviandoLe la presente perché desidero comunicarLe questa notizia: Il giorno 9 dello scorso mese ho conseguito la laurea in Giurisprudenza con la votazione di 110 su 110 e la lode della commissione. Perché mi sto facendo premura di farLe sapere quanto sopra? e soprattutto perché specificare il voto? Una sciocca vanteria? No, è ben altro! E’ il desiderio di esprimerLe, anche se in ritardo, ma in modo più concreto che con semplici parole, la mia gratitudine per quanto Ella ha fatto per me. Le ricorderò un episodio di alcuni anni fa: in 3° liceo, ricorrendo il Suo onomastico, si pensò di dedicarLe alcune frasi "in rima" scritte alla lavagna. Un passo lo ricordo bene: "……………………………. nostra madre ci insegnò a camminare. nostro padre ci insegnò a parlare, Lei ci insegnò a ragionare ……………………………………….." Al di là di quello che poteva essere il valore "lirico"(!) di quelle frasi, il loro contenuto era sincero volendo significarLe il nostro "grazie" per quei doni che continuamente Ella ci elargiva: la capacità critica ed autocritica; la volontà di riflettere e gli strumenti di riflessione; il desiderio di superare le apparenze per tentare di scoprire i significati reconditi; e, più di ogni altro, il gusto per la discussione, per l’incontro dialettico. Nella nostra formazione ed educazione la sua opera di docente fu, senza nulla togliere al resto del corpo insegnante, validissimo peraltro, una sorta di "rivoluzione copernicana": un nuovo metodo di studio, un nuovo modo di apprendere; ed oltre che nuovo indubbiamente il più esatto. Ciascuno di noi ( mi permetto di parlare anche a nome degli altri perché idealmente li sento vicini a me in questo doveroso omaggio ) ha serbato in sé quella sorta di tesoro intellettuale ripromettendosi di farne l’uso che più fosse degno del donante. Ed è per questo che mi sono permesso di informarLa di quanto sopra e dirLe tutto questo a distanza di tanto tempo: quel risultato da me conseguito è in parte, ed in gran parte, anche suo. Sono i suoi insegnamenti e soprattutto una sorta di "habitus" mentale che lei ha saputo crearmi giorno dopo giorno nel corso di due anni che, messi a frutto, hanno consentito il raggiungimento di quel traguardo a quel livello. Io Le rendo noto questo mio piccolo primo successo col cuore di colui che mostra dei meravigliosi frutti a chi gli ha donato dei semi di preziosa qualità affinché questi ne gioisca e se ne senta compartecipe nel merito. Non credo di riuscire ad esternarLe pienamente il mio senso di gratitudine per quanto so di doverLe, ma si abbia ugualmente la promessa che porterò sempre i suoi insegnamenti e il suo ricordo con me. Perdoni se l’ho importunata e voglia accettare la mia stima ed il mio affetto. Sostituto procuratore in Agrigento, Rosario mi scrive e spesso mi manda i saluti tramite gli avvocati licatesi. La mattina dell’11 settembre 1990, la televisione interrompe i suoi programmi e con una edizione straordinaria del telegiornale comunica la dolorosa notizia del Suo assassinio. Mia moglie ed io abbiamo pianto! (tratto dal sito http://www.giuseppe.peritore.name/) Quest’anno, nel ventesimo anniversario della morte di questo magistrato, la cui giovane vita è stata interrotta così brutalmente, suonano profetiche le parole che cinque anni fa pronunciò Don Pietro Li Calzi, parroco della chiesa di San Domenico a Canicattì: “ Volevano spengere una luce, hanno acceso un faro per sempre”. Non perché la mafia sia vicina ad essere sconfitta, tutt’altro: anzi possiamo dire che se oggi –almeno quella siciliana- uccide sempre meno, forse si deve al fatto che essa è diventata sempre più organica a molte istituzioni e che il connubio con la politica, sia livello locale che nazionale, si è accentuato. Quello che invece è sensibilmente cambiato è l’atteggiamento di tanta parte della gente siciliana, che ha imparato a contrastare l’omertà e il pizzo, e a sentire profondamente la legalità come valore irrinunciabile. Rosario Livatino, che Giovanni Paolo II definì “martire della giustizia ed indirettamente della fede” può dunque essere annoverato, insieme Giovanni Falcone e a Paolo Borsellino, come uno dei grandi giusti del nostro tempo, figure esemplari, nella loro coerenza e nel loro coraggio, dell’umanità più autentica e disinteressata.
Rosario Livatino