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Controcopertina: Il Volterraio, la Madonna del Monte e altre storie

Scritto da : Sergio Rossi
Pubblicato in data : giovedì, 02 settembre 2010

Il Volterraio. E’ una delle icone della feraiesità di tutti i tempi, come ben ricorda chi ha fatto le elementari al Grigolo, alla “Scuola Cesare Battisti” e, di tanto in tanto, si incantava a guardare il castello, per pochi attimi, prima di essere richiamato all’ordine dalla tonante voce della bravissima e indimenticabile maestra Gigliola Mibelli. La Madonna del Monte. E’ uno dei primi posti in cui ho portato i miei figli non appena hanno avuto sufficienti capacità deambulatorie, magari sostenendoli, per alcuni tratti, con un po’ di ‘cavalluccio’. Si tratta di un luogo magico, con una densità di memoria storica quasi stordente, luogo nel quale gli incontri di Napoleone e della Walewska sono episodi tutto sommato recentissimi, preceduti dai rituali religiosi delle popolazioni dell’età del bronzo e dalle loro abili attività di fusione del rame, in forni che sfruttavano i venti di quota per alimentare fuoco e temperatura. Poi ancora il culto pagano di Giove, i romitaggi cercati da uomini venuti dall’Africa per fondarvi monasteri. Cose, tutte queste, delle quali si sa pochissimo. Anche un ateo e agnostico avverte in questo luogo la chiara percezione di suggestioni transmateriali ed emotive esistenti da sempre, dall’alba dell’uomo. Altre storie. Tutte queste cose vanno in pezzi, ce lo diciamo ormai da tempo. Si potrebbe dire anche che gli elbani odiano l’Elba almeno quanto gli italiani odiano l’Italia, due realtà geografico-storiche stracolme di monumenti e di memorie reputate inutilmente costose e di ostacolo allo ‘sviluppo’. Gli italiani sono decisamente un popolo sfortunato! A loro è toccato in sorte una vera fetenzia di paese, che va da montagne di bellezza ineguagliabile, alte più di 4000 metri, a colline ospitali e fertili, a spiagge dal fascino tropicale, il tutto, talvolta, nello spazio di alcune centinaia di kilometri; un paese nel quale si può sciare d’inverno e andare al mare dalla primavera all’autunno! Quanto sarebbe stato meglio vivere in una unica, indifferenziata pianura, priva di emergenze ambientali e culturali, da potere facilmente riempire di residence, di autostrade a quattro corsie, svincoli, aeroporti, porti turistici…! Si dice, ce lo diciamo ormai da tempo, che la rovina del patrimonio culturale è dovuta alla mancanza dei fondi. Chi scrive se ne occupa da qualche anno e, forse, qualcosa ha cominciato a capirne, grazie anche alla fortuna di insegnare archeologia e al fatto di essere da dieci anni coordinatore di un master in Conservazione e gestione dei beni archeologici e storico-artistici. In questo decennio è giunta a compimento la fine del patrimonio culturale in Italia, dopo una malattia lunghissima, cominciata (sarà un caso?) negli anni ’80, in era craxiana, con la perfida invenzione dei ‘giacimenti culturali’. Allo Stato, che fino a quel momento il patrimonio lo aveva gestito in maniera insoddisfacente e sprecona ma lo aveva gestito, vennero da allora sottratte risorse su risorse per darle ai privati, in nome di una ristrutturazione del settore in chiave imprenditoriale, che producesse anche reddito e profitto. Gli enti preposti alla tutela-conservazione-gestione (le Soprintendenze), invece di essere sottoposti a profonde e radicali riforme (di cui c’era un grande bisogno) sono stati via via svuotati e devitalizzati, fino al punto di essere ridotti all’impotenza. La lagnanza sulla scarsità/assenza di risorse potrebbe continuare all’infinito ma non è questo quello che qui interessa. Vi sono oggi musei e parchi culturali in piccole e piccolissime città tedesche (non credo poi tanto ricche) che non possiamo far altro che invidiare (perché noi no?). Il fatto è che noi scontiamo una patologia ormai cronica, frutto di un radicato e aspro individualismo, che da personale e tribale che era, nel tempo è diventato collettivo e politico. Lungi dallo stemperarsi nella dimensione istituzionale delle comunità regionali, provinciali e comunali, si è sclerotizzato tant’è che è oggi insanabile. E’ più facile che nascano, tanto per fare un esempio, un Museo del Totano a Marciana Marina e uno del Polpo a Rio Marina piuttosto che un solo museo delle tradizioni marinaresche isolane (anche perché, nella migliore delle ipotesi, verrebbe progettato, dopo 30 anni di liti, in una posizione equidistante fra gli 8 comuni, ovvero sulla cima del monte di San Martino). Alla incomunicabilità delle istituzioni si è inevitabilmente sovrapposta la criminosa dispersione delle competenze. Si fa presto a dire “conservare”, ora che due eccellenze presenti da secoli nel campo del restauro, il Centro di Restauro e l’Opificio delle Pietre Dure, sono stati svuotati negli anni, di soldi e di esperti. Ricerca e investimenti nel settore del patrimonio culturale all’Elba (storia, archeologia, architettura, storia dell’arte…e della ricerca antropologica vogliamo parlarne?) sono fermi da vent’anni almeno. Mentre il mondo andava avanti, e non solo all’estero (basta vedere l’esperienza della Società Parchi della Val di Cornia), noi restavamo indietro, incapaci persino di mantenere la gestione comune dei Musei di Portoferraio (ormai ridotto a uno stanzone polveroso), di Marciana, di Rio Elba (ora, per fortuna, rinato a nuova vita, grazie ad un Sindaco lungimirante). Oggi si può chiedere a uno studente riese delle scuole “sai che cosa sono quelle cime spoglie e rosse accanto al tuo paese?” e ricevere risposte impacciate e imbarazzate, perché delle miniere di ferro dell’Elba nessuno sa più niente. E non parlo delle miniere degli Etruschi e dei Romani ma di quelle dei nostri padri e dei nostri nonni, tale e tanta è la perdita di memoria e di identità culturale. Si dirà: ma questa è roba che non rende! Vero, ma è anche vero che un luogo, quando è un luogo vero, viene conosciuto e apprezzato per le sue specificità e particolarità, non perché si omologa agli altri posti, fino a formare una indistinta serie di non-luoghi. Si viene all’Elba per trovare l’Elba (uomini, ambiente, paesaggi e cose dell’Elba) non trovare il fotoritocco di Rimini, di Punta Ala o di Porto Cervo. Ma, se i primi ad essere spossessati della loro stessa identità sono proprio gli abitanti del luogo, come possono raccontare la loro storia a quanti, ignari, provengono da fuori? Oggi, consapevoli o no, sono spesso lo Stato e le altre istituzioni che espropriano i cittadini del loro stesso patrimonio, sia esso un faro, una caserma o San Giovanni per farci il water-front. Viviamo una fase di profonda e pericolosa debolezza della rappresentatività civica, cosicché il cittadino vota, elegge, dà consenso, poi di tutto questo si perde la tracciabilità. Le amministrazioni locali appaiono deboli di fronte a gruppi economici in grado di esercitare forti pressioni, anche soltanto psicologiche (il ricatto sull’occupazione è un classico). Il cittadino, compiuto il proprio dovere elettorale, viene dimenticato e accantonato. Serve, allora, una reazione dal basso (gli antropologi che studiano le popolazioni native chiamano bottom-up, dal basso verso l’alto, le spinte al cambiamento provenienti non dalle élite ma dalle masse) che porti, in un tempo ragionevole, ad un cambio generale di mentalità. Serve lavorare soprattutto nelle scuole, ma anche nel variegato mondo dell’associazionismo. Serve riprogettare il paesaggio isolano senza costruire ma impegnandosi a conoscerlo, a valorizzarlo e a farlo conoscere. Non si dica che mancano le risorse. Dove non sono né concertazione né condivisione anche i soldi diventano inutili e, talvolta, dannosi. Si devono fare progetti coerenti e si devono costringere le amministrazioni a farli o farli fare, progetti sui quali ragionare e per sostenere i quali andare poi a cercare le risorse. E occorre soprattutto aprirsi all’esterno (il “fasso tutto mì” non va bene, come dimostra la storia italiana recente) andando a cercare competenze e collaborazioni laddove esistono. Si è più elbani confrontandosi con gli altri che non restando rinchiusi nel proprio bossolo.


Volterraio panorama

Volterraio panorama