Leggo con piacere l’intervento di Yuri Tiberto sul recente libro di Mario Tozzi, e lo apprezzo per l’equilibrio che resta al di là delle note critiche in contraccambio a quelle del Presidente del Parco. Non mi interessa qui discorrere sulle ragioni di Tozzi o dei suoi critici, e vedo che lo stesso Tiberto su certi aspetti di rilievo dice le cose non dissimili dal suo presidente. E credo che concorderà con me che l’Elba che Tozzi stigmatizza non si è così conformata negli ultimi quattro o cinque anni, e che il ricordo di noi tutti che c’eravamo negli anni Sessanta e nei primi anni Settanta, in terra e in mare, si accompagna a un rimpianto infinito. Perché se i PEEP di Campo e di Rio sono fioriture recenti ‒ma la “realtà locale” le ha gradite, e come!; e già preme perché se ne impiantino altre‒, con lo stesso gradimento sono state accolte e benedette, e da tanto più tempo, ben altre a Campo, e quelle di Rio Marina, Porto Azzurro, Capoliveri, Bagnaia, Marciana Marina ‒con la sua bella passeggiata “a molo”‒, Procchio. Se proprio vogliamo riunirli tutti i “compagni di betoniera” pubblici e privati degli ultimi trent’anni, converrà organizzare l’incontro all’Airone, con il rischio che non c’entrino. Sono d’accordo che l’Elba non è Ischia, o Malta, o Ibiza. Ma so anche per certo che chi viene all’Elba non è interessato a vedere case, villette, ville, palazzi, che trova anche intorno a casa sua. E lo stesso Tiberto ‒gli piace vincere facile?‒ il suo apologo a Tozzi lo ha recitato all’Enfola, guardando il Viticcio e lontano sui colli Poggio e Marciana: a Capo Ortano, o a Golfo Stella lato est, o nel golfo di Porto Azzurro lato sud, o poco a largo del Cavo lato est, o a Sant’Andrea, o a Patresi gli sarebbe venuto un po’ peggio. Ma vorrei toccare un punto che a me pare più importante: scrive Tiberto: “E’ il sistema Parco che non funziona”. Credo che il problema sia un altro: è il sistema Elba che non esiste, e di conseguenza il Parco Nazionale resta esterno alla realtà locale perché questa è formata da nuclei separati e fra sé impermeabili, sui quali una istituzione ‘comprensoriale’ cala di necessità dall’alto, e di necessità appare coartante, impositiva, inutilmente vessatoria. Inoltre, all’interno di ogni nucleo territoriale, ancora gli interessi particolari dei singoli sono ritenuti prevalenti a quelli della comunità, e ogni regolamentazione pianificatoria è vissuta per i risvolti personali (“è a mio favore o mi va contro”) e non interessa per gli aspetti di sviluppo. Se si lavorasse finalmente a un sistema Elba, se si elaborassero progetti di sistema e si avesse la costanza di comunicarli alle popolazioni motivandone il senso e le prospettive; se si convogliassero in quella direzione gli investimenti pubblici e soprattutto privati ‒quante delle infrastrutture presenti sono all’altezza di un turismo globale e tecnologico?‒, allora un Parco Nazionale, il Parco, tornerebbe alla sua natura originaria di strumento di sviluppo di quel progetto. E diventerebbe un importante veicolo per il turismo internazionale, omogeneo alla qualità ambientale dell’Elba che se lo può permettere. Non conosco personalmente Mario Tozzi, e mi fido volentieri del giudizio positivo che Tiberto dà della persona. Come Presidente del Parco forse non si è trovato in sintonia con gli interlocutori locali. Ma ricordo un suo punto programmatico fondamentale, enunciato subito, e che doveva dare il senso di cosa avrebbe potuto fare con noi e per noi: “L’Elba isola no oil”. Era una suggestione straordinaria, che avrebbe davvero lanciato la realtà ‒e l’immagine‒ elbana come punta avanzatissima della politica locale e dell’impresa turistica, oltre a produrre vantaggi immensi sulla qualità della vita di chi vive sull’Isola, e per ciò stesso di chi viene all’Isola a cercare proprio qualità e bellezza. Significava, appunto, immaginare un sistema capace di far fiorire tutta la straordinaria potenzialità che l’Elba contiene, permettendole di costituirsi come modello della realtà futura. Ma in un sistema nessuno può stare per conto proprio. Deve essere per questo che la passione per lo sport ‒con i suoi collettivi, il suo fare squadra, il suo senso di appartenenza, i suoi riti, la sua religio‒ ha nel nostro tempo così grande fortuna: è nello sport che si indirizza il bisogno di sistema che è connaturato alla natura dell’uomo animal politicum, come diceva Aristotele, e che non si riesce a realizzare nella vita ordinaria, privata o pubblica che sia, dove prevale la paura, l’ansia, l’angoscia che portano a chiudersi nel confine certo dell’individualità, della famiglia, del clan, del partito, del paese, dell’etnia, e via dicendo. Se al Parco si era pensato come a un centro erogatore di denaro o di “posti”, se gli si vedeva affidato il compito di fare quello che non si riesce a fare nell’impresa, nell’Amministrazione, nell’economia locale, se si era immaginato come un Totem benefico e si pensava che il suo presidente ‒chiunque fosse‒ dovesse essere uno stregone buono e comprensivo delle microesigenze di ciascuno, credo proprio che si fosse sbagliato, e non di poco. Il Parco è per sua natura un sussidio fondamentale allo sviluppo di una realtà che vuole svilupparsi e sa guardare lontano: se si è capaci di capire come farlo divenire elemento trainante di un progetto di sistema che si è già fatto, è strumento prezioso, è un’occasione unica. Se rimane qualcosa di estraneo alla vita della comunità, come un monumento che interessa solo pochi cultori, allora è davvero inutile: ma non per colpa dei presidenti.
luigi totaro