Torna indietro

Controcopertina "Un anno nel campo di prigionia",’incontro con Jan Van Beusekom Racconto di un medico olandese ex-deportato ai ragazzi di Marciana Marina

Scritto da : Elena Maestrini
Pubblicato in data : sabato, 20 febbraio 2010

“Un buco di dolore nella sua vita”, “una ferita dolorosa, ma anche un’avventura fortunata”, “mi ha colpito il suo coraggio”. Così alcuni studenti della scuola media di Marciana Marina hanno commentato l’incontro con Jan Van Beusekom, medico olandese, prigioniero per un anno in un campo di concentramento nazista nei Paesi Bassi. Statura imponente, occhi di un azzurro liquido, mani lunghe e magre. Jan, 86 anni portati con eleganza, ha raccontato a scuola, per oltre un’ora, la sua esperienza di giovane deportato. “Avevo 20 anni, studiavo medicina, ero figlio di un’Ebrea e appartenevo ad un gruppo di resistenza antinazista. Avevo nascosto due miei amici ebrei, ma li scoprirono e li presero. Presero anche me, mi rinchiusero in prigione, e mi mandarono al campo di smistamento”. Il racconto di Jan si dipana su due binari. Quello della grande storia, dell’Europa in fiamme avvelenata dall’odio razziale, e quello della sua esperienza personale, un misto di dolore e solidarietà umana. Nella sua avventura i ragazzi hanno ritrovato alcuni tratti degli autori letti e studiati a scuola: “dormivamo in 400 sulla paglia”. Un frammento di Levi si è acceso quando qualcuno gli ha chiesto che cosa avesse conservato di oggetti personali durante la prigionia: “soltanto i miei ricordi”. "E' stato anche un momento in cui ho stretto amicizie importanti, in mezzo alle difficoltà il bisogno di aiutarsi diventa più forte". Un incontro intenso che ha avvicinato due mondi tanto diversi. Da una parte Jan, una generazione segnata dalla guerra e dal coraggio di ricostruire un mondo nuovo, dall’altra gli adolescenti che si affacciano alla vita con il loro fagotto di oggetti superflui e incertezze. Una cultura nordeuropea e una mediterranea, quest'ultima condizionata dall’isolamento del mare, che per un pomeriggio si sono fissate negli occhi. Jan si è salvato perché si è ammalato. I tedeschi non volevano epidemie nel campo. “Per loro non ero un criminale toppo pericoloso, perciò invece di uccidermi mi hanno liberato”. Parla della sua malattia in termini di riconoscenza. In mezzo al male assoluto, anche la tubercolosi può diventare un bene.


lager shoa

lager shoa