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Controcopertina: La Chiesa, la bestemmia e il grande fratello

Scritto da : Sergio Rossi
Pubblicato in data : mercoledì, 27 gennaio 2010

Spesso mi capita di pensare che i vescovi e il papa intervengono su temi esterni alla loro funzione religiosa, ancorché aperti alla discussione e al giudizio di ogni cittadino, per essere la riflessione etica un dovere di tutti senza essere esclusiva di alcuno. Talvolta mi capita anche di pensare che su altri argomenti un loro intervento sarebbe pertinentissimo, per evitare che l’autorità dell’evento cristiano (messaggio, tradizione, cultura, storia) nel quale iscrivono la loro ragion d’essere (senza esclusive, di nuovo), sia svilita, umiliata, oltraggiata; e invece tacciono. Vengo ai fatti. In quella fiera campionaria dell’umiliazione umana che è “Il grande fratello” si è ripetuto un increscioso incidente: un concorrente, Massimo, sembra oltre la sua intenzione, si è lasciato sfuggire una espressione gergale (peraltro, ahimè, comunissima) che accostava, incidentalmente, in un contesto del tutto eccentrico, il Nome di Dio ad altra parola ‒anch’essa di uso assai corrente‒ e indubbiamente impropria, configurando quella che si dice una ‘bestemmia’. Per questo motivo è stato espulso dalla “Casa”. Non starò qui a dire che ‒per mancanza di autocontrollo, volgarità, pochezza espressiva, assenza di senso delle situazioni, non considerazione del luogo, dell’occasione, del pubblico realmente e virtualmente presente, fino alla conoscenza del regolamento del “gioco” in corso‒ il fatto in sé può essere considerato grave (né trova giustificazione alcuna, neppure in una cultura come la nostra toscana che vanta ‒!!!‒ una tradizione e una pratica antiche e fiorenti di “creatività” blasfema, nutrita e incrementata in ogni bar, stadio, ufficio, famiglia, insomma quasi dovunque). L’ignoranza e il ricorso a metafore semplificanti per mancanza di vocabolario o per mimesi al ribasso non possono essere accettabili in una società acculturata, né ordinariamente evitarne il disprezzo. Ma, appunto, in una società acculturata. Quel che mi interessa, invece, è stata ‒per così dire‒ la cerimonia della pronuncia della sentenza, le reazioni dei compagni di gioco, i comportamenti dei conduttori. Mi è capitato di vedere tutto questo ieri sera, mentre aspettavo il sempre notevolissimo “Mai dire Grande fratello” della Gialappas’s Band, che con l’inconfondibile stile giocoso costituisce una rigorosa requisitoria in un processo che si potrebbe, e si dovrebbe, fare a una trasmissione televisiva che mette a nudo l’infimo livello culturale e sociale del nostro ridente popolo italiano, facendone addirittura quasi una celebrazione trionfale. Dunque, in una scenografia che ricordava lo spargimento di sangue sacrificale, la conduttrice Alessia Marcuzzi spiegava al colpevole che molti “credenti” si erano sentiti offesi dalla frase da lui pronunciata ‒solo da quella, dal resto no‒, e ne avevano chiesto la testa al “Grande fratello”, il quale comunque per regolamento avrebbe dovuto espellerlo. Il giovane, preparato alla condanna, ha reagito con qualche dignità; molta di più dei suoi compagni, che hanno pianto, si sono disperati, hanno accusato la sorte e il rigore inumano del regolamento e di chi lo applica, hanno fatto attestazioni di amore amicale pari o superiori al dileggio, agli insulti, al disprezzo manifestato fino ad allora nel corso del gioco per il compagno che ora perdevano ‒non maggiore né minore a quello di tutti per tutti fra loro‒. Fin qui tutto ordinario, come da copione ‒verrebbe da dire‒. Ma il copione è diventato disgustoso quando prima la bella Marcuzzi ‒“partigiana” del giovane punito, pur rivendicando l’osservanza del regolamento‒, poi l’ineffabile Alfonso Signorini hanno sentito il bisogno di fare la loro professione di fede cristiana e cattolica. Qui, pur non essendo credente (come si dice), mi sono sentito offeso. Non mi passa neppure per la testa di giudicare l’intimo sentire di una persona, chiunque essa sia. Ma la pubblica testimonianza di fede da parte di chi conduce una trasmissione televisiva che dal progetto primo a ogni minuto che passa è la più scandalosa irrisione del messaggio cristiano, oltreché dell’intelligenza umana e della coscienza civile, mi appare come una esibizione davvero blasfema ‒anche solo a considerare il piacevolissimo abbigliamento della Conduttrice, certo un po’ lontano dall’iconografia classica del “martire” (cioè testimone della Fede)‒. Anche senza soffermarsi sulla “testimonianza cristiana” che la simpatica signora offre da anni nella sua vita quotidiana (fatti suoi fino a quando non ci chiede di considerarli anche nostri). Ma questo è il meno. Anche Signorini ha fatto poi la sua professione di fede. E se le considerazioni che, pur senza alcun piacere, ho fatto a proposito del rapporto fra testimonianza di vita e testimonianza di fede riguardo alla Marcuzzi mi hanno condotto a rilevare uno stridore acuto fra quello che veniva detto e quello che veniva rappresentato; quando rivolgo il pensiero alla persona, alla vita, all’attività professionale, al ruolo stesso nel “gioco”, di Alfonso Signorini, lo stridore diviene lacerante. Tutti “teniamo famiglia”, e “pecunia non olet”, come dicevano gli antichi. Ma l’impegno “culturale” di una persona di singolare intelligenza dedicato in ogni sua manifestazione alla dispersione dell’altrui intelligenza ‒ e della coscienza di sé‒, per tacere di tentazioni più o meno riuscite di alimentare contemporaneamente e chi sa quanto lecitamente il proprio potere o il proprio patrimonio, dovrebbero almeno lasciare intatto un ambito così delicato e profondo, e anche drammatico per certi aspetti, quale quello della fede religiosa. Un uomo di indubbia cultura dovrebbe, nel contesto in cui ieri sera parlava e agiva, rivestito come era delle insegne della futilità e della vanità, avere il pudore di parlare limitandosi al copione ‒e se il copione gli imponeva di dire quel che ha detto, di rifiutarsi di farlo per manifesta disomogeneità di piani‒. Signorini, invece, non si è limitato a difendere come era giusto il provvedimento preso nei confronti del concorrente, ma ha solidarizzato “da credente, da cristiano”, con i credenti che si erano sentiti offesi dalla espressione blasfema (solo da quella, evidentemente); e ha invitato un altro dei giovani della “Casa” ‒che sembrerebbe esservi stato ammesso proprio in quanto testimone di fede‒ a svolgere la prevista azione di educazione e di riflessione religiosa con gli altri giovani, per “vedere” in che modo avrebbero reagito a sollecitazioni più alte. Insomma, in un programma televisivo che rappresenta senza veli tutte le variazioni dell’immaginario onanistico e fornicatorio dei cinque sensi, sia dei partecipanti della “Casa” che degli spettatori, come ben testimoniato dagli aspiranti respinti che ancora la Gialappa’s Band ci fa vedere impietosamente; due persone in quel contesto “autorevoli” ‒proprio perché simboli di ciò che la “Casa” mette in scena (degrado di ogni umanità)‒ rivestono i panni dei moralizzatori, dei testimoni cristiani; si limitano però a una interpretazione semplificatissima del Secondo Comandamento, dimenticando o ignorando che l’ordine di “Non chiamare Dio ciò che Dio non è” (non dare il nome di Dio inutilmente) riguarda forse più il mito del successo, del potere, del denaro, le “vanità” appunto di questo mondo, di quel “mondo” del quale la Casa del Grande Fratello vuole essere “meraviglioso” spettacolo, di quanto non riguardi l’ignoranza e la cialtroneria. E vescovi e papa dove sono?


luigi totaro

luigi totaro