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Pensieri su collaboranti di giustizia, lotta alla mafia, processi temuti

Scritto da : Sergio Rossi
Pubblicato in data : domenica, 06 dicembre 2009

“A pensar male si fa peccato, ma di solito ci s’indovina”, dice il saggio Andreotti. Sono pericolosi i mafiosi “collaboranti di giustizia” (“pentiti” è parola che mi pare impropria, moralistica e tutto sommato insignificante: è problema loro, il pentimento; non ci riguarda). Sono pericolosi perché le loro parole sono come sospese, buttate lì come proiettili di cecchini, fuori di ogni obiettivo percorso di verità; capaci di dare spiegazioni a fatti ed eventi complessi, ma quasi mai capaci di fornire elementi di prova. Sono pericolosi perché non si sa mai cosa li spinge a “collaborare” oltre il vantaggio personale che sperano di poter trarre (e che anche ricavano nell’immediato): ed è troppo facile immaginare che perseguano un disegno forse criminoso. Per questo tutti concordano nel dire che le loro testimonianze devono essere verificate più di ogni altra; che i riscontri devono essere più severi di sempre; che di per sé ciò che affermano, o anche ciò che confessano, non significa niente fino a quando non trova conferme incontrovertibili. Ma è innegabile che senza le “informazioni” dei collaboranti la lotta alle mafie è quasi impossibile: l’intreccio fitto delle complicità con “pezzi delle Istituzioni”, come si dice, (intreccio che è l’ordito sul quale si tessono tutte le trame mafiose) esclude di fatto che possa darsi altra testimonianza utile se non di mafiosi o “concorrenti esterni” in associazione mafiosa. Appunto, “collaboranti”. Il lavoro dei magistrati è in questi casi davvero difficile, perché il materiale per loro disponibile è quasi sempre assai infido. Eppure, come tutta la storia della lotta alle mafie racconta, la strada passa necessariamente di lì. E allora l’opinione pubblica dovrebbe essere aiutata a considerare questi problemi con attenzione e ponderazione, più che essere tirata a schierarsi nel consueto agone fra innocentisti e colpevolisti sulla base di “pre-giudizi”, più che essere “distratta” dalla difficile via della verità. Abbiamo potuto seguire, negli ultimi giorni, il dibattito sulla giustizia in Italia, che ormai per consapevolezza comune si articola intorno ai processi del Presidente del Consiglio: processi ai quali egli intende sottrarsi per il motivo dichiarato che non si fida dei giudici. Si è introdotta nel dibattito una variabile impropria, che vede intervenire nella vicenda giudiziaria il ruolo istituzionale dell’imputato in quanto “eletto dal popolo”, postulando che lo svolgimento della sua funzione sarebbe prevalente all’accertamento della verità giudiziale. Questo è un punto delicatissimo. Intanto, nel nostro ordinamento a livello nazionale non si dà elezione popolare se non dei deputati e dei senatori, e da essi il Presidente del Consiglio riceve la fiducia che gli conferisce la funzione di governo: non c’è nessuna “Costituzione materiale” che possa prevalere sulla Carta Costituzionale scritta, fondamento della Repubblica. Ma principalmente, per l’interesse di tutti i cittadini -che abbiano votato per il partito di maggioranza relativa o per i partiti di opposizione-, come anche per interesse del Presidente del Consiglio -soprattutto se è innocente, come deve essere-, è fondamentale poter escludere con certezza che il Capo del governo è colpevole di corruzione in atti giudiziari (o di concorso esterno in associazione mafiosa, se mai dovesse essere rinviato a giudizio per questo); o (deus avertat) accertare se è invece colpevole. Dunque non c’è altra strada che la celebrazione dei processi che lo riguardano. Per questo i tentativi di sottrarvisi o di neutralizzarli con la prescrizione appare in ogni caso spiacevolmente sospetta; e ugualmente sospetta appare la paura dei suoi sostenitori che appoggiano in tutte le sedi quei tentativi. Le argomentazioni addotte sono deboli, e sono state ampiamente contestate nel dibattito in corso. Ora poi, con la deposizione del testimone Spatuzza, si è raggiunto il massimo del ridicolo: come ormai accade da tempo, la Maggioranza ha adottato due slogan e li ripete a raffica in ogni occasione pubblica, secondo una tecnica di marketing collaudata. Il primo slogan si propone di screditare i testimoni collaboranti, e segnatamente Spatuzza: si dilunga nella descrizione delle sue nefandezze, quando il suo ‘curriculum vitae’ parla da solo; ma non considera che proprio quel ‘curriculum’ è, ahimè, condizione necessaria perché egli possa fornire informazioni utilizzabili sulla mafia; e se la testimonianza di uno come lui non è di per sé probante, è vero anche che la demonizzazione di un uomo di mafia non costituisce prova a discarico. Il secondo slogan considera i successi ottenuti dal Governo Berlusconi nella lotta contro la mafia (con tanto di elenco statistico dei risultati ottenuti), asserendo che essi sono la prova più chiara di un impegno inconciliabile con qualunque connivenza mafiosa. Anche qui, attenzione! I risultati vantati dal Governo sono in realtà opera diretta della magistratura e delle forze di polizia da essa coordinate - di quella stessa magistratura che sta processando Marcello dell’Utri in secondo grado, dopo averlo già condannato in primo grado-; e dunque il Governo deve ridimensionare il suo medagliere a alcuni interventi volti a rendere più severo il regime carcerario dei mafiosi (controbilanciato, tuttavia, da altri provvedimenti assunti -scudo fiscale- o in via di assunzione -vendita all’asta dei beni sequestrati ai mafiosi-, che sembrano favorire assai il riciclaggio di denaro di provenienza criminale). Ma poi, in ogni caso, il testimone Spatuzza non sta dicendo di aver conoscenza di contatti “in essere” fra Berlusconi e dell’Utri con importanti boss mafiosi; afferma che tali contatti ci sarebbero stati nel 1993, cioè sedici anni or sono; e quindi il riferimento al lavoro attuale del governo è assolutamente anacronistico e improprio (e semmai il confronto si dovrebbe fare non con il breve intervallo del Governo Prodi, ma con il precedente Governo Berlusconi, durato tutta la legislatura). A pensar male si potrebbe sostenere che all’epoca quei contatti erano necessari per i motivi indicati da alcune fonti di stampa nei giorni scorsi in ordine al finanziamento di Fininvest, mentre oggi -con la sopravvenuta autonomia finanziaria del Gruppo- la loro evocazione è pericolosissima, e quindi deve essere cancellata attraverso rumorose dichiarazioni di guerra, se non attraverso un’azione di contrasto capace di neutralizzare definitivamente gli scomodi compari di un tempo. O, più semplicemente, come ha cambiato strategia Cosa Nostra potrebbero averla cambiata per arcani scopi anche i suoi alleati “concorrenti esterni”. Ma, con buona pace di Andreotti, è meglio non fare peccato. Anche in questo caso la via migliore resta l’accertamento della verità mediante la celebrazione dei processi, e quella peggiore la fuga dall’accertamento delle responsabilità (che sarebbe di una gravità quasi insostenibile per il Paese) o dall’accertamento dell’estraneità ai fatti (che tutti ovviamente ci auguriamo di cuore). Berlusconi dice di non voler essere processato perché non si fida dei giudici milanesi. Il nostro ordinamento prevede tre gradi di giudizio, l’ultimo dei quali presso la Suprema Corte di Cassazione, che non risiede a Milano. Ci sono dunque tutte le garanzie possibili. Ma poi: perché Berlusconi ha paura di essere condannato in primo grado? Perché ha paura di essere condannato anche in secondo grado? E se ha paura di essere condannato anche in Cassazione, non sarà perché ha paura di essere colpevole?


luigi totaro

luigi totaro