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A Berlino vent’anni fa

Scritto da : Sergio Rossi
Pubblicato in data : giovedì, 12 novembre 2009

A Berlino vent’anni fa Tutti i viaggi che si rispettino iniziano a quell’ora. Ed è ancora buio quando saliamo sulla nave delle cinque e venti. Firenze, Verona, Brennero, Monaco, poi vediamo. C’è da attraversare la Germania Est, e le autorità di frontiera non vedono affatto di buon occhio quella marea di gente, soprattutto giovani, che da ogni parte d’Europa hanno una destinazione comune: Berlino. A migliaia erano temporaneamente riparati in Ungheria e Germania Ovest, accampati nei giardini delle ambasciate occidentali, e la domanda era una sola: tornare in Germania, che in quel momento era un unico luogo, l’ultima fermata: Berlino Zoo Station. Difficile dire come nasca un’idea del genere. Una grande curiosità, e soprattutto l’occasione per trovarsi dentro la storia, toccare con mano l’Evento mentre si compie. La libertà riconquistata. Il Muro è caduto ieri e noi stiamo arrivando, mentre alla dogana ogni pretesto appare inutile per rallentare chiunque si muova in quella direzione, non c’era in quel momento in noi una particolare emozione, si percepiva da settimane che sarebbe accaduto qualcosa di definitivo, e con Massimo Zottola eravamo pronti a prendere quella nave alle cinque e venti. Forse l’approccio iniziale è stato quello della partenza per un concerto, ma poi il treno comincia a riempirsi di ragazzi con zaini, coperte, chitarre, ad ogni fermata in territorio DDR, ogni volta che sale qualcuno (mai gente da sola ma sempre in gruppo), partono canti e grida di approvazione e diminuisce lo spazio da dividere negli scompartimenti. Nessuna tensione ma molto disagio nei controllori, che forse vorrebbero sedersi lì in mezzo invece di interpretare per l’ultima volta la parte degli inflessibili in divisa verde. Il mondo li sta investendo e loro a marcare il “transvisum” sul passaporto con timbri martello e compasso che la storia sta frantumando. Cinquanta ore di viaggio per starne ventiquattro a Berlino, cercare una ferramenta e comprare un mazzolo e uno scalpello. Il varco più grande e significativo nel muro lo stanno aprendo a Alexander Platz, e noi lì a battere e raccogliere schegge di cemento colorato, mentre fra le transenne passano le Trabant e le Lada avanti e indietro, cariche di stereo portatili e altri elettrodomestici, ma anche piatti e carta igienica (l’equiparazione della valuta fa miracoli e chi varca il Muro è inevitabilmente coinvolto nel parossismo consumistico degli acquisti). Confesso che abbiamo approfittato anche noi della distribuzione promozionale di Mars e mini-pacchetti di Marlboro da tre. Il Muro è ancora tutto lì, chiunque si avvicina trova uno spazio da colpire, i Vopos cominciano a ritirarsi, la festa iniziata il giorno prima continuerà a lungo, intorno a quei graffiti si materializza forse per la prima volta il vero villaggio globale, e la percezione che qualcosa di unico e irripetibile stia accadendo comincia a impossessarsi di tutti, il senso di condivisione (anche degli strumenti da sbattere sulla faccia di Honecker nei graffiti che lo ritraggono accanto a delle bare) diventa il denominatore comune che cancella la nazionalità di appartenenza di ciascuno di noi. Non è un gesto simbolico, il Muro viene abbattuto, un simulacro di potere retto su divisione e sofferenza, un Totem Sacrilego su cui finalmente scaricare picconate di no. Certo per i Tedeschi dell’Est è diverso ma le nostre non sono motivazioni strettamente ideologiche, piuttosto la contrapposizione fra una cosa giusta e una sbagliata. Niente vinti e vincitori in questo momento, piuttosto una strana consapevolezza che non poteva continuare così, e sarebbe stato importante esserci. Non a caso il 9 novembre e tutti i giorni di seguito sono stati una grande festa, in cui due giovani, partiti dall’isola d’Elba con la famosa “prima nave”, si sono poi trovati a dividere una bottiglia di Chianti con altri sconosciuti (uno era texano), infreddoliti, contando quanti frammenti colorati avessero raccattato in una intera giornata a picchiare quel cemento come fosse un lavoro. Oggi sono passati venti anni, e so che abbiamo vissuto una fantastica emozione. Sapevamo che la storia stava cambiando non certo per i colpi di mazza che davamo noi, ma per il fatto che eravamo in migliaia a farlo insieme, e la sensazione che resta davvero è quella di qualcosa di simile a una grande Woodstock nel mezzo dell’Europa, senza musica, ma con tanta gente che aveva scelto di esserci.


zottola castelvecchi a berlino 1989

zottola castelvecchi a berlino 1989