La tragedia di Messina del primo ottobre e le parole del Capo dello Stato sul dissesto idrogeologico impongono un ripensamento attorno al ponte sullo stretto e, quanto meno, una moratoria dovuta a motivi di natura territoriale, sociale e ambientale, oltre che di buon senso. Prima di tutto viene il rischio idrogeologico, che si è appena dimostrato qui essere elevato come in pochi altri posti: il versante siciliano è uno «sfasciume pendulo» che andrebbe risanato e rinaturalizzato prima di ogni altro intervento. E il ponte peggiorerebbe le cose sensibilmente: per piazzare il pilone di sostegno - alto come l’Empire State Building e largo in proporzione - bisogna scavare una fossa enorme, sottraendo 4-5 milioni di metri cubi di terreno. Sarebbe inevitabile poi sconvolgere il già scarso equilibrio idrogeologico, prosciugare i laghi di Ganzirri e distruggere il paesaggio con cave e scassi di ogni tipo che il dissesto lo creerebbero ex novo anche in zone geologicamente più tranquille. A meno che non si voglia ricoprire tutta la provincia di Messina con una colata di cemento, il dissesto sarà aggravato dai lavori. Ma sul versante calabrese la situazione è peggiore, non tanto per le colate di fango, quanto per gli «scivolamenti gravitativi profondi», frane con superfici di distacco talmente profonde da mettere in pericolo la stabilità dell’altro pilone di sostegno, quello di Cannitello. A Scilla la linea ferroviaria che tiene il Sud legato al Nord della penisola è interrotta un anno sì e l’altro pure a causa delle frane e la gente scende dal treno per superare i tratti dissestati in pullman: siamo sicuri che non ci siano altre priorità? Lo stretto di Messina è, in aggiunta, la regione a maggior rischio sismico d’Italia: qui è avvenuto, appena 100 anni fa, il terremoto più violento che il Mediterraneo moderno ricordi, seguito da un tremendo tsunami per complessivi 100.000 morti. Ma i centri storici di Messina, Reggio Calabria e Villa San Giovanni non sono stati risanati con criteri antisismici e si stima che solo un quarto delle costruzioni resisterebbe a terremoti maggiori di magnitudo 6 Richter (quello del 1908 è stato di 7). Per quanto se ne sa il ponte reggerebbe a un terremoto di magnitudo 7 Richter, però nessuno ci assicura che il prossimo - che non è certo evitabile - possa non essere più violento. Ma in quel caso saremmo di fronte a un insopportabile stornamento di fondi pubblici o privati (non fa molta differenza) dalla indispensabile ristrutturazione antisismica, a favore di un’opera che non è certo urgente. Insomma, se il ponte resterà in piedi unirà due cimiteri, con buona pace della sicurezza dei cittadini che dovrebbe precedere ogni tipo di intervento pubblico. C’è infine un ultimo punto critico, il fatto che i due versanti non solo non sono «fermi», geologicamente parlando, ma si muovono in maniera disarmonica. La Sicilia si solleva meno rapidamente della Calabria (0,6 mm/anno contro 1,5) e si sposta (1 cm/anno) verso una direzione diversa dalla prima. Un triangolo di crosta terrestre più ballerino è davvero difficile trovarlo al mondo, siamo sicuri che si debba fare proprio lì un’opera la cui redditività è messa in gravissima crisi dalla congiuntura economica (ricordiamo che la stima di recupero dell’investimento sarebbe positiva solo con un incremento del Pil del +3,8% annuo, mentre oggi siamo a valori negativi)? Certo, i ponti si fanno anche in aree sismiche come il Giappone, ma quello di Akashi - il più lungo finora realizzato a campata unica - fu talmente provato dal terremoto di Kobe del 1995 che la sua costruzione fu interrotta e rivista rispetto al progetto e che la linea ferroviaria, inizialmente prevista, fu eliminata. E a Kobe la ristrutturazione antisismica è stata iniziata prima di fare il ponte, e frane non ce ne sono. In un’ipotetica scala di priorità, quando di soldi ce ne sono così pochi, cosa viene prima, la sicurezza o gli affari e la megalomania?
Tozzi seccheto